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ITINERARI - SPAZIO E TEMPO - LO SPAZIO NOTO E L'IGNOTO

INTRODUZIONE

Anche i gruppi umani, come gli animali, hanno un territorio che segnano con le loro opere, le loro immondizie, gli oggetti che usano, che costruiscono, che buttano via: uno spazio «umanizzato», entro il quale si muovono con disinvoltura, trovano nutrimento e protezione. Uno spazio che va difeso da eventuali aggressioni, ma nel quale, a meno di imprevedibili cataclismi, si vive senza rischi. Lo spazio di massima umanizzazione per il gruppo familiare è la casa, il ricovero per eccellenza, «covo» (dal latino cubare = «giacere», «stare disteso») o «tana» (dal latino [caverna sub] tana = «buca sotterranea») dell'uomo.
Viaggiare può indicare una qualsiasi forma di mobilità spaziale: anche il percorso che un pendolare compie ogni giorno per raggiungere il luogo di lavoro, o il semplice uscire di casa è un viaggio. In latino l'avverbio domi (legato a domus = «casa») vuol dire «a casa propria» e anche «in patria»; il suo contrario foris o foras («fuori», «all'esterno») è legato a fores che significa «porta» (o i battenti della porta). è come dire che il mondo di fuori (da cui forestiero, ma anche foresta, il luogo pauroso di tutte le fiabe, lo spazio selvaggio per definizione, dove si va a caccia o a raccogliere funghi, ma dove ci si può perdere e si può essere aggrediti) comincia dalla porta di casa.
Nel significato più ricco e più appropriato viaggiare vuol dire però muoversi nell'ignoto (o nel poco noto). Vuol dire allontanarsi da «casa», ma non tanto nel senso fisico, materiale, di abitazione, quanto in quello, morale ed affettivo, di «ambiente familiare»: allontanarsi da casa nel senso di abbandonare l'orizzonte entro il quale si consuma l'esistenza quotidiana, e che, grande o piccolo che sia, è insieme noioso e rassicurante perché è noto, sempre uguale, privo di pericoli e di sorprese.
Così definita, però, l'esperienza del viaggio è tutta soggettiva, e cioè relativa alla cultura di chi viaggia: non conta la lunghezza o la durata del percorso, ma la qualità e l'intensità delle emozioni che esso procura. Una caratteristica del nostro tempo è che un turista o un diplomatico o un uomo di affari può volare da un capo all'altro del mondo ritrovando dovunque l'ambiente che gli è familiare: la stessa camera d'albergo, gli stessi cibi, le stesse persone. Costoro, si potrebbe dire, si muovono molto, ma non viaggiano mai.
E non sono i soli. Molti, per i quali viaggiare non è che una professione (ferrovieri, marinai, piloti, commessi viaggiatori, ambulanti, ecc.), finiscono per non avvertire nemmeno il cambiamento di orizzonti o per lo meno per non considerarlo in alcun modo emozionante: il mezzo con il quale si trasferiscono da una regione all'altra del mondo è, in un certo senso, la loro vera casa. Ciò vale in particolare per i marinai, il cui rapporto con la nave che li trasporta è sempre stato nel passato (e spesso lo è ancora) emotivamente molto intenso.

La maggior parte dei marinai - ha scritto sul finire del secolo scorso Joseph Conrad in Cuore di tenebra - conducono, se è permessa l'espressione, una vita sedentaria. La loro mentalità è di tipo casalingo, e la loro casa li accompagna sempre: la nave; e così pure il loro paese: il mare. Una nave rassomiglia molto ad un'altra nave, e il mare è sempre io stesso. Nell'immutabilità del loro ambiente le coste straniere, le facce straniere, la mutevole immensità della vita scivolano via, velate non da un senso di mistero, ma da un'ignoranza un tantino sprezzante; perché per un marinaio nulla risulta misterioso, se non forse il mare stesso, che è il padrone della sua esistenza e imperscrutabile come il Destino...

Ci sono popolazioni nomadi il cui spazio quotidiano è talmente vasto, che i loro membri possono percorrere migliaia di chilometri senza mai uscirne, e cioè ritrovandosi sempre, per così dire, «a casa». A questo proposito si può ricordare la storia (raccontata da un etnologo francese) di un ragazzino tebu (una popolazione sahariana che vive tra il Tibesti e il Fezzan) che nel 1931, a dodici anni, fu mandato da suo padre a recuperare un cammello prestato a genti di passaggio. Partito dal Tibesti, dove stava con la famiglia, il ragazzo si aggregò ad una carovana e raggiunse il Fezzan, dove rintracciò il gruppo che gli avrebbe dovuto restituire il cammello. Ma il cammello non c'era più: si era perduto, gli dissero. Il ragazzo raccolse un po' di informazioni in giro e riuscì a sapere da alcuni viaggiatori che provenivano dal Sud, che il suo cammello era stato visto tra quelli di un reparto di meharisti francesi diretto a Madama (nel Nord del Niger). Il ragazzo si aggregò allora ad un'altra carovana e raggiunse Madama, dove riuscì a convincere le autorità francesi del suo buon diritto. Nel frattempo, però, il reparto con il cammello era ripartito per Bilma, quattrocento chilometri più a Sud, e il ragazzo dovette riprendere il cammino, questa volta a piedi, e con una ghirba (ossia un otre di pelle per l'acqua) mezza piena sulle spalle per superare due lunghi tratti, di 90 e di 80 chilometri, del tutto privi di pozzi e sorgenti. Raggiunto finalmente il reparto, poté recuperare il cammello. Al momento di tornare indietro, però, si accorse che qualcuno gli aveva rubato la ghirba. Allora il ragazzo si ripresentò alle autorità di Madama per denunciare il furto. Il comandante, colpito dalla tenacia del ragazzo, gliene regalò una tutta nuova e gli diede, per giunta, 25 franchi. - Adesso vattene a casa! - gli disse. - Neppure per sogno! - rispose il ragazzo. - Ora che ho un cammello, una ghirba nuova e un po' di soldi vado nel Fezzan a comprar datteri -.

VICINO E LONTANO

Tra le informazioni relative a un viaggio la più elementare, la più importante, è quella relativa alla distanza che separa il punto di partenza da quella di arrivo. Senonché questa distanza non è tanto in funzione dello spazio, quanto del tempo. Quando ci mettiamo in viaggio quello che ci interessa soprattutto sapere è quando arriveremo a destinazione: quello che conta non è tanto la lunghezza, quanto la durata.
Su un'autostrada un tratto di cento chilometri è pressappoco uguale ad un altro tratto di cento chilometri ed entrambi possono essere percorsi all'incirca nello stesso tempo. Ciò significa che la distanza tra due punti dell'autostrada, per esempio tra due successive aree di servizio, può essere valutata ugualmente bene (a una data velocità media) in chilometri o in ore. L'uniformità di un percorso autostradale è però l'eccezione, non la regola, come possiamo sperimentare quando, per esempio, facciamo una gita in montagna. In passato, poi, c'erano ben pochi percorsi che presentassero una tale uniformità. Ogni tratto di un itinerario presentava difficoltà diverse, che dovevano essere affrontate con mezzi appropriati e imponevano al viaggiatore velocità diverse. Il tempo medio complessivo necessario a compiere un viaggio era il migliore indicatore delle difficoltà del percorso, e le distanze espresse in ore o giornate di marcia risultavano spesso più comprensibili di quelle espresse in miglia o in chilometri.
La stessa presunta imprecisione delle antiche mappe è in qualche caso da collegare a questo aspetto. Se per andare in una località vicina era richiesto lo stesso tempo che per andare in una località lontana è possibile che sulla carta i due percorsi apparissero pressappoco uguali: le distanze più significative tra due punti erano quelle espresse in unità di tempo, non di spazio.
Anche oggi, comunque, capita di valutare le distanze sulla base del tempo impiegato a percorrerle (il quale dipende ovviamente dal mezzo usato). Un esperimento che gli psicologi ripetono frequentemente per studiare la percezione che la gente ha dell'ambiente in cui vive, consiste nel chiedere a più persone di tracciare una «mappa mentale», ossia una rappresentazione schematica dei percorsi abituali, nella quale vengono indicate con segmenti di retta le distanze tra la propria abitazione e altri punti di riferimento, come ad esempio la scuola del quartiere, il palazzo comunale, la stazione, un paese dei dintorni, un'altra città, ecc. Queste mappe sono sempre molto diverse l'una dall'altra (costituiscono infatti una rappresentazione tutta soggettiva dell'ambiente) e soprattutto sono diverse da una normale carta topografica. Rispetto a questa, in particolare, le distanze risultano deformate: quelle che vengono normalmente percorse a piedi risultano proporzionalmente più lunghe di quelle fatte abitualmente in autobus e queste ultime, a loro volta, più lunghe di quelle percorse in treno.

UN MONDO IN MOVIMENTO

Quando cerchiamo di immaginare la vita della società tradizionale, prima cioè dell'avvento del sistema industriale, viene fatto di pensare, specialmente per le campagne, ad un mondo chiuso entro l'orizzonte del borgo o del villaggio, con scarsi contatti con l'esterno, e dove la mobilità della gente era assai limitata. Questa immagine è in gran parte sbagliata. Le notizie, ad esempio, circolavano abbondantemente, per lo meno nelle classi medio-alte. Non c'erano telegrafi né telefoni, e i giornali erano meno diffusi di oggi, ma quelli che sapevano scrivere dedicavano buona parte del loro tempo alla corrispondenza, e le lettere, che recavano sempre, oltre alle comunicazioni private, le notizie correnti, viaggiavano con una velocità non molto inferiore (e talvolta perfino superiore) all'attuale. Per quanto riguarda poi la mobilità, non c'erano né treni, né auto, né aerei, ma ci si muoveva moltissimo, anche (e forse soprattutto) nelle classi più umili, che avevano sempre viaggiato a piedi, e che in molti casi continuarono a farlo anche quando ormai esistevano le ferrovie. è probabile che la mobilità della popolazione, anziché aumentare, sia sensibilmente diminuita con l'avvento della moderna società industriale.
Tanto per cominciare, nomadi e vagabondi costituivano una percentuale consistente della popolazione e in occasione di eventi catastrofici, come una guerra o una carestia, il loro numero poteva crescere sensibilmente e improvvisamente: le sciagure, individuali o collettive, spingevano alla fuga e la perdita delle consuete fonti di sostentamento induceva a vivere di espedienti. C'era, insomma, una gran massa di poveri e di sventurati che erano in continuo movimento da un luogo all'altro, perennemente cacciati da ogni parte ma dovunque presenti, giacché la società del tempo non era assolutamente in grado di assorbirli in attività economicamente produttive o socialmente utili.
Quello del vagabondo era una sorta di mestiere; anzi, come si diceva, era l'«arcimestiere», e i contemporanei vi distinguevano una quantità di «specializzazioni» diverse: funamboli, guitti e saltimbanchi che davano spettacolo per le strade; imbonitori e ciarlatani che vendevano paccottiglia sempre pronti a sorprendere la buona fede dei semplici; mendicanti, pezzenti ed accattoni che vivevano d'elemosine sotto le vere o le mentite spoglie (e in questo secondo caso si trattava propriamente di «mariuoli») di monaci, frati, pellegrini, storpi, epilettici, invasati, e così via; e infine ladri, bricconi e furfanti di ogni sorta.
Indipendentemente però da questa massa di vagabondi che viveva ai margini della legge e della società, molti mestieri «veri», talvolta altamente apprezzati, erano ambulanti, o legati a migrazioni periodiche: carbonai (che facevano il carbone di legna), vignaiuoli, minatori, fonditori, fabbricanti di vetro, venditori di libri o di stampe, merciai, ecc. C'erano lavoratori che percorrevano centinaia di chilometri nel corso di una sola campagna di lavoro, la quale, del resto, poteva durare molti mesi, e in qualche caso anni. Un esempio che può valere per tutti è quello delle maestranze dette «lombarde» (in realtà provenienti dall'intero arco delle Prealpi, dal Piemonte al Veneto), che, organizzate in «compagnie», hanno costruito nel corso di secoli un enorme patrimonio di edifici lungo tutta la dorsale appenninica: questi maestri da muro partivano a Pasqua dai loro villaggi e non vi facevano ritorno che a Natale.
La mobilità della manodopera era anche in funzione del fatto che gran parte dei lavori, sia in campagna, sia in città, avevano carattere stagionale (basta pensare a quelli legati al raccolto, alla vendemmia o al taglio del bosco): i lavoratori inseguivano da una regione all'altra le possibilità di occupazione, cercando di incastrare nel modo più conveniente i diversi impieghi che potevano presentarsi nel corso dell'anno.
Alle migrazioni stagionali erano particolarmente interessate le famiglie contadine. I maschi adulti vi dedicavano i periodi dell'anno in cui la cura dei campi, richiedendo minore impegno di lavoro, poteva essere affidata alle mogli e ai figli più giovani, che restavano a casa. Il denaro guadagnato nelle migrazioni era indispensabile ad integrare il prodotto della terra che, specialmente nelle aree di agricoltura montana, povera o poverissima, raramente bastava a coprire i pur limitatissimi bisogni della famiglia. Per i giovani in attesa di accasarsi, poi, le migrazioni stagionali costituivano il modo più comune di guadagnare un gruzzoletto per farsi la dote o il corredo, per acquistare prima del matrimonio un pezzo di terra o qualche capo di bestiame, per mettere da parte qualche soldo per i primi e più difficili anni di vita del nuovo nucleo familiare.

CASA

Casa in latino vuol dire «abitazione di campagna», «capanna» o «baracca» (ed è interessante il cambiamento di significato che la parola ha subito nell'italiano). Quello che in italiano indichiamo con «casa» ha invece in latino due equivalenti ben distinti: aedes e domus. Il primo, da cui vengono «edificio», «edilizia», «edicola», ecc., indica un oggetto materiale, ossia una costruzione destinata all'abitazione o al culto (Aedes Minervae = «il tempio di Minerva»). Il secondo da cui viene «domicilio» ma anche «domestico», «dominio» (da dominus = «padrone», «capofamiglia») e «donna» (da domina), indica il luogo dove sta la famiglia o addirittura è sinonimo di famiglia. Non solo dunque non si identifica con un particolare edificio ma anche come indicazione di luogo ha una connotazione più affettiva che spaziale per molti aspetti affine a «patria». Hic domus hic patria («qui la casa qui la patria») è il grido che Virgilio (nell'Eneide) attribuisce all'esule Enea quando sbarcando in Italia decide di fermarvisi.

VAGABONDI

ACCATTONE

Dal latino adcaptare, "cercare di prendere": è sinonimo di mendicante.

BIRBANTE

Viene da birba (che significa "uomo scioperato", ma anche "azione fraudolenta") che a sua volta deriva dal francese bribe, "pane per i mendicanti": un classico esempio di associazione di povertà e malizia.

BRICCONE

Dal latino (e italiano) bricca, "montagna": vuol dire montanaro, e cioè (per la solita associazione povero-brutto-cattivo) uomo rozzo, aggressivo, infido. Da briccone, attraverso un probabile biricone, viene birichino, che oggi significa "ragazzo vivace, irrequieto", ma che originariamente indicava il malfattore in generale. La stessa attenuazione ha subito la parola monello, oggi sinonimo di birichino (nel senso di "giovane vivace e indisciplinato", con speciale riferimento al "ragazzo di strada"), ma un tempo equivalente di briccone (adulto).

CIARLATANO

Chi cerca di trarre vantaggio dalla credulità altrui, per esempio spacciando per buona della paccottiglia. Imbonitore, che è sinonimo di ciarlatano, è composto appunto di in- e di buono: colui che fa diventar buono ciò che non lo è. Ciarlatano è un incrocio di ciarla (chiacchera, affermazione non vera) e di Cerretano (abitante di Cerreto, in Umbria): i Cerretani erano famosi, appunto, come imbonitori e hanno finito col dare il nome all'intera categoria.

FUNAMBOLO

Viene dal latino funis, "fune", e ambulare, "camminare": è l'equilibrista che danza sulla corda.

FURBO

Dal francese fourbe, nome gergale del ladro, da fourbir, "pulire [le tasche]": chi sa trarre vantaggio da comportamenti astuti o maliziosi. La lingua furbesca è il gergo della malavita.

FURFANTE

Dal francese forfaire, composto di fors, "fuori", e faire, "fare": "agire fuori [della legge]". Indica genericamente l'uomo di malaffare; in antico era sinonimo di birbante, pezzente, straccione.

GUIDONE

Sinonimo di vagabondo e di furfante. Ha la stessa radice (per altro incerta) di guitto, che indica genericamente chi vive in modo misero, meschino, ma che più precisamente si riferisce agli attori nomadi, che davano spettacolo per le strade e che per lo più erano di bassa levatura e di scarso talento.

MARIOLO O MARIUOLO

Sinonimo di briccone o furfante. Viene probabilmente dalla formula "far le marie", che vuol dire simulare semplicità o devozione, o, in generale, ordire inganni e truffe.

MENDICANTE

Come "accattone" e "pezzente" indica chi vive di elemosina. Ha la stessa etimologia di menda, che significa errore, difetto, magagna: il latino mendicus, oltre che "mendicante" significava "uomo che presenta difetti fisici" (ancora una volta ci troviamo di fronte l'associazione povero-brutto).

PELLEGRINO

Dal latino peregrinus, "straniero": viaggiatore, viandante, e specialmente il devoto che viaggia per visitare luoghi santi in adempimento di un voto o comunque di un obbligo religioso.

PEZZENTE

Dal latino petere, "chiedere" (attraverso un probabile petire del latino parlato) indica chi vive di elemosina e per estensione, chi vive in condizioni di estrema povertà.

PITOCCO

Dal greco ptochòs, "mendicante", è l'accattone, ma anche, in generale, chi vive un'esistenza meschina fatta di grettezze e di spilorcerie. Pitocco è affine a taccagno, "avaro", un termine di etimologia incerta (forse da associare all'espressione "(at)taccato [al denaro]"), il cui equivalente spagnolo, tacaño, indica oltre all'avaro, chi agisce con malizia.

SALTIMBANCO

Composto di "saltare" e "in banco" (dal latino saltare, "danzare") è l'acrobata o il ballerino che si esibisce nelle strade su un palco improvvisato.

VIANTE O BIANTE

Dal latino viare, "viaggiare": viaggiatore, pellegrino.

IL PICARO

Il viaggio e l'avventura hanno sempre ispirato la fantasia degli scrittori, e anche il vagabondaggio ha avuto i suoi poeti. Tra tutte le figure di vagabondi e di avventurieri il picaro è quella che ha avuto la maggiore fortuna letteraria, avendo dato origine addirittura ad uno specifico genere letterario, il romanzo picaresco, che annovera alcuni grandi capolavori, prodotti soprattutto in Spagna tra il Cinquecento e il Seicento.
Picaro è un termine spagnolo di etimologia incerta, che indica un personaggio di umile origine (spesso un trovatello), vagabondo, briccone, preoccupato solo di riempire una pancia eternamente vuota, che per sopravvivere fa qualunque mestiere, si piega a incarichi servili o ricorre a furti e imbrogli. Qualche volta il picaro chiede l'elemosina o si camuffa da pellegrino, ma non è un mendicante di professione: è piuttosto un maestro nella difficile arte di arrangiarsi. Spinto dalla fame, si sposta continuamente da una parte all'altra d'Europa, ma il suo è un peregrinare senza scopo e senza senso, guidato dal caso. Più che nello spazio il picaro viaggia attraverso le più disparate situazioni dell'emarginazione e dello sradicamento. Talvolta, nei romanzi, questo viaggio si conclude con il rientro del picaro nell'ordine, nella normalità e addirittura nell'agiatezza: neanche in questo caso, però, si tratta del giusto compenso per le privazioni sopportate, né tanto meno di una meritata conquista, ma, ancora e sempre, di un evento fortuito, tanto privo di senso quanto le sofferenze e le umiliazioni che lo hanno preceduto.
Il personaggio del picaro e la letteratura picaresca sono nati nel momento in cui l'impero spagnolo era all'apice della sua potenza e del suo splendore e per oltre un secolo hanno accompagnato il lento ma inarrestabile declino di quel Paese. La Spagna di questo periodo era governata da una classe dirigente poco sensibile ai problemi dell'economia, ma soprattutto era dissanguata dalle continue guerre a cui la costringeva il suo ruolo di potenza egemonica in Europa.
Ai margini della società veniva ingrossando la schiera dei poveri, dei vagabondi e dei parassiti. Il fenomeno non era soltanto spagnolo. In Spagna, tuttavia, c'era qualcosa di più e di specifico, una sorta di stanchezza o di rassegnazione diffusa in tutti le classi. Queremos comer sin trabajar, «pretendiamo di mangiare senza lavorare», scriveva sconsolato agli inizi del Seicento un economista spagnolo analizzando vecchi e nuovi mali del suo Paese: era la morale del picaro, che era però condivisa in larga misura dagli altri gruppi sociali.
Il capostipite del genere picaresco è il romanzo Lazarillo de Tormes, apparso anonimo nel 1554 e subito salutato da un enorme successo di pubblico (tre edizioni solo nel primo anno). è l'autobiografia fittizia di un giovane che sin dall'infanzia è costretto a combattere con la fame e che proprio in forza della tranquilla naturalezza con cui accetta la propria condizione di miseria morale e materiale riesce alla fine ad aver ragione delle avversità. Lazarillo si guadagna la vita servendo personaggi poco meno miserabili di lui: un mendicante cieco, astuto e maligno, «un'aquila nel suo mestiere», che lo tiranneggia e gli è maestro di furfanterie e che Lazarillo abbandona con un crudele sotterfugio non appena ritiene di aver imparato abbastanza da lui; un prete avaro e affamato che mangia il pane dei poveri; un nobilastro squattrinato e vanesio che vive su quello che Lazarillo riesce a mendicare; e così via. Lazarillo tira a campare, passando da un padrone all'altro, fino a quando riesce a sistemarsi agiatamente pigliando in sposa una serva a cui il padrone-amante, un prete, assicura rendite e protezioni. Nonostante l'ambientazione popolare e la finzione autobiografica, il romanzo è certamente opera di un colto umanista, che si proponeva di rappresentare attraverso le avventure e le disavventure di Lazarillo la faccia cenciosa della Spagna imperiale.
Anche se è il prototipo del picaro, Lazarillo non è mai designato con questo nome dal suo anonimo creatore. Il termine compare invece, quasi mezzo secolo dopo, nella Vita del picaro Guzmàn de Alfarache (conosciuta in Italia anche con il titolo La vita del furfante), un ampio romanzo del sivigliano Mateo Alemàn (1547-1615?), pubblicato nel 1599. Vi si narrano le peripezie di un vagabondo che attraversa la Spagna e l'Italia facendo i mestieri più diversi, l'accattone, il mercante, il soldato, il lenone, il baro, il marinaio, il servitore e alla fine il galeotto. Ricco (quando riesce a ingannare qualcuno) o povero (quando è ingannato da furfanti più bravi di lui), il picaro Guzmàn è sempre disperatamente privo di ideali e privo anche di quella generosa vitalità che rende estremamente simpatica la figura di Lazarillo. Il Guzmàn de Alfarache è un romanzo cupamente pessimistico, pervaso dal sentimento della disillusione (il desengano proprio della cultura spagnola in questa età di crisi) e dal disprezzo per un mondo in cui, come scrive Alemàn, il pane che ti puoi aspettare dagli altri è invariabilmente «pane di dolore, pane di sangue, anche se ti vien dato da tuo padre».
Al genere picaresco appartiene una delle più belle Novelle esemplari che Miguel de Cervantes Saavedra (1547-1616),l'autore del Don Chisciotte, pubblicò a Madrid nel 1613: Rinconete e Cortadillo, che è la storia di due ragazzi, Pedro del Rincon, baro, e Diego Cortado, tagliaborse, che, uniti in società, vivono di furfanterie e sono alla fine accolti con tutti gli onori nella confraternita dei ladri di Siviglia. Altre celebri figure di picari sono state create da Francisco de Quevedo (La vita del pitocco, 1603), da Francisco Lopez de Ubeda (La pìcara Justina, 1605), da Vincente Espinel (Marcos de Obregòn, 1618) e, fuori della Spagna, dal tedesco Hans Jacob Grimmelshausen (L'avventuroso Simplicius Simplicissimus, 1669 e Vita dell'arcitruffatrice e vagabonda Coraggio, 1670, entrambi collocati nella Germania devastata dalla guerra dei trent'anni), dal francese Alain-René Lesage (Storia di Gil Blas di Santillana, 1715-35), ecc.

I PELLEGRINI

Tra le ragioni che inducono gli uomini a viaggiare una notevole importanza hanno sempre avuto quelle religiose: il pellegrinaggio, ossia la visita di luoghi ritenuti «santi» è una pratica diffusa in molte culture e spesso implica spostamenti su grandissime distanze. Nel mondo musulmano, ad esempio, il pellegrinaggio è addirittura un dovere del fedele, il quale, nei limiti delle sue possibilità, è tenuto a visitare almeno una volta nella vita la Mecca e Medina, le città sante legate alla predicazione di Maometto. In Europa, dove il pellegrinaggio è sempre d'attualità (basta pensare alle centinaia di treni speciali che ogni anno partono per Lourdes), il fenomeno ha avuto particolare sviluppo nel Medio Evo e nei primi secoli dell'età moderna, quando l'esistenza dell'uomo comune era intrisa di superstizioni e l'esperienza del magico, del miracoloso, del sacro rientrava, per così dire, nella quotidianità.
A quei tempi, comunque, la pratica del pellegrinaggio si inseriva in una abitudine alla mobilità che, come abbiamo visto, era assai più diffusa di quanto comunemente non si pensi e che probabilmente era superiore a quella di oggi: la gente tendeva a spostarsi in continuazione da una regione all'altra sotto la spinta delle motivazioni più diverse, a cominciare naturalmente da quelle economiche, ma senza escludere la pura e semplice insofferenza per la sedentarietà.
Tra Medio Evo ed età moderna i cristiani avevano tre mete principali per i loro pellegrinaggi: Gerusalemme, Roma e S. Giacomo (Santiago) di Compostella, celebre santuario della Galizia. Se il viaggio in Terra Santa richiedeva una traversata di mare, il pellegrinaggio a Roma o a S. Giacomo di Compostella era fatto di lunghe marce a piedi su percorsi quasi sempre disagevoli e talvolta, come nei tratti montani dei Pirenei, delle Alpi o degli Appennini, decisamente pericolosi.
La gran massa di pellegrini che si spostavano da un santuario all'altro produceva un notevole flusso di quattrini, tanto più che non tutti erano poveri e che anche i miserabili, nel generale clima di superstizione in cui erano immersi, erano disposti a sperperare quel po' che avevano in offerte ai santuari. Per la maggior parte, comunque, i pellegrini vivevano delle elemosine e dell'ospitalità che riuscivano a trovare nei Paesi che attraversavano e non era facile distinguerli dai mendicanti, dai vagabondi, dagli artigiani o venditori ambulanti che percorrevano le stesse strade: ciascuno assumeva di volta in volta questo o quel ruolo e tutti assieme formavano una folla cenciosa e pittoresca, in continuo movimento da un capo all'altro dell'Europa alla ricerca d'una reliquia, d'un lavoro, d'un tozzo di pane, o d'un compagno di strada da borseggiare.
In teoria c'era modo di individuare in quella folla i pellegrini. Dal santuario il pellegrino tornava di solito con un segno della meta raggiunta (il che oltre a essere un ricordo, costituiva una prova nel caso che il pellegrinaggio gli fosse stato imposto come penitenza per qualche colpa commessa). Da Gerusalemme si portava un ramo di palma e da San Giacomo di Compostela una conchiglia raccolta sulle spiagge vicine (ma più tardi fu possibile acquistarle direttamente davanti al santuario). Molte stampe raffigurano appunto il pellegrino di Santiago con un lungo bastone a cui è appesa una conchiglia (quella che in Francia viene chiamata appunto coquille St-Jacques). Ma questi contrassegni erano a portata di chiunque e quello del pellegrino era il travestimento preferito di bricconi e mariuoli.
Per alleviare i disagi del viaggio e offrire un po' di ristoro ai viandanti, lungo le principali strade di accesso ai santuari, e soprattutto lungo quelle che portavano a Roma, in posizioni opportune (ponti, traghetti, valichi alpini, ecc.), dove più frequente era il transito dei pellegrini o maggiori erano i pericoli e le fatiche del cammino, sorsero dei rifugi, ospedali (dal latino hospes = «ospite»: edificio destinato ad accogliere gli stranieri di passaggio, pellegrini e vagabondi) o xenodochi (dal greco xénos = «straniero», «ospite» e déchesthai = «accogliere»). Alcuni di questi ospedali sono divenuti celebri, come quello di Antiochia, sulla strada di Gerusalemme, o quello di S. Cristina, sulla strada di S. Giacomo di Compostella.
I primi ospedali ricevevano indifferentemente quanti avevano bisogno d'un rifugio: pellegrini, poveri, malati. Solo in un secondo tempo l'ospedale è diventato un edificio specificamente destinato al ricovero e alla cura dei malati. Quando, nei primi secoli dell'età moderna e alla vigilia della rivoluzione industriale, l'eccessiva mobilità della popolazione ha cominciato ad essere avvertita dalle autorità pubbliche come un pericolo per l'ordine pubblico e per la sicurezza sociale, l'antica istituzione dell'ospizio per forestieri si è evoluta anche in un'altra forma di ricovero specializzato: quella dei cosiddetti «alberghi dei poveri» luoghi di assistenza, ma anche di reclusione (e di «rieducazione» attraverso il lavoro) per mendicanti e vagabondi, i quali, come è facile immaginare, cercavano di evitare in ogni modo di esservi rinchiusi.

LE ANTICHE GUIDE DI VIAGGIO

La più antica guida di viaggio che sia pervenuta fino a noi quella di Pausania detto il Periegeta, vissuto nel II secolo d.C., al tempo dell'imperatore Adriano, e autore della Periegesi della Grecia. Il genere della relazione di viaggio, periplo o periegesi che letteralmente significa «giro della Terra»), esisteva da molto tempo (quelle di Ecateo di Mileto che cercavano di dare un'immagine delle terre allora conosciute risalgono al IV secolo a.C.), ma la periegesi di Pausania è la sola in prosa dell'età classica la più simile ad una guida per il «turista»: in dieci libri vi era descritto l'itinerario percorso dall'autore nella Grecia continentale passando accuratamente in rassegna, di città in città e di monumento in monumento, tutto ciò che meritava di esser visto e che poteva giustificare un viaggio.
Pausania non era greco e per raccogliere i materiali per la sua guida aveva dovuto percorrere la Grecia palmo a palmo, consultando gli archivi locali, interrogando la gente, e ascoltando le guide di professione (che già esistevano). Per lui, cittadino romano nato in Asia Minore, la Grecia era qualcosa di simile a ciò che sarà l'Italia per i viaggiatori nordici nell'età moderna: un immenso museo, la terra delle meravigliose rovine che attestano l'antica grandezza. Perciò il suo viaggio, come ogni vero viaggio, non era soltanto nello spazio, ma anche nel tempo. Il viaggiatore intelligente è sempre anche archeologo e storico, capace di riconoscere nel paesaggio le tracce del passato.
Nel Medio Evo le guide tesero a distinguersi sempre di più dalle relazioni di viaggio e a rivolgersi a un pubblico sempre più diversificato. Le guide per i naviganti (i portolani, che servivano, come indica la parola stessa, a riconoscere i porti verso cui si faceva rotta) e per i mercanti continuavano, ma con sempre maggiore specializzazione, il genere dei peripli di età classica (come il Periplo del Mare Eritreo di cui abbiamo parlato). Sensibilmente diverse erano le guide per i pellegrini, che costituiscono forse, e specialmente quelle per i viaggi verso Roma, l'antecedente diretto delle moderne guide turistiche.
Tra le guide ai luoghi detti «santi» la più antica è la Guida del pellegrino di S. Giacomo, che risale al XII secolo. Indicava i santuari (e le relative reliquie) che i pellegrini potevano visitare sulla strada di Compostella e forniva consigli e informazioni sui possibili itinerari, sulle tappe, sulle caratteristiche dei Paesi attraversati e delle genti che vi abitavano, perfino sulla bontà delle sorgenti che si sarebbero incontrate per via.
C'erano anche delle curiose annotazioni etnografiche. Dei navarresi, ad esempio, si diceva che erano malvestiti (portavano abiti neri corti al ginocchio) e che non sapevano né mangiare né bere da persone civili: pare infatti che tutti i membri di una stessa casata, servi compresi, usassero mangiare pescando il cibo con le mani dalla stessa marmitta e che bevessero dallo stesso recipiente. «Quando li si guarda mangiare - c'è scritto - sembra di vedere dei cani o dei maiali che divorano famelici; quando li si sente parlare sembra di ascoltare dei cani che abbaiano».
Non è detto naturalmente che questa e altre analoghe osservazioni rispondessero a verità. è probabile piuttosto che quella che si può considerare la prima guida turistica d'Europa abbia inaugurato anche quel genere di immagini stereotipate delle razze e dei popoli che ancora oggi alimentano molti pregiudizi (i Tedeschi disciplinati ma un po' tonti; gli Italiani confusionari ma creativi; gli Svedesi alti e biondi; i Piemontesi falsi e cortesi; i Siciliani gelosi; gli Scozzesi, gli Ebrei e i Genovesi spilorci, e così via) e che talvolta affiorano proprio in questo tipo di letteratura.
Dopo quasi due millenni di storia (se prendiamo come inizio del genere la Periegesi di Pausania), la guida di viaggio resta uno strumento insostituibile di conoscenza, di cui non sapremmo fare a meno. La ragione di questa sua lunga fortuna sta probabilmente nel fatto che insieme alla carta e all'enciclopedia la guida è una delle più pratiche e agevoli forme di organizzazione del sapere geografico.
Non solo però di organizzazione: la guida è stata ed è tuttora un ottimo strumento di memorizzazione. Fino a tutto il Settecento, prima che la geografia cosiddetta «scientifica» entrasse nelle aule scolastiche con il suo descrittivismo un po' mortificante, si era soliti ripetere che l'apprendimento della geografia, per lasciare tracce profonde nella mente dei giovani doveva, per quanto possibile, assomigliare a un viaggio. Come insegnava, tra l'altro, l'antica arte della memoria si riteneva, forse con qualche ragione, che fosse più facile memorizzare le disparate informazioni attinenti alla storia, alle arti, ai costumi, alla vita economica dei diversi Paesi del mondo seguendo una struttura itineraria, quale è appunto quella della guida.

O LA BORSA O LA VITA

Sino ad un'epoca non molto lontana da noi i briganti infestavano le strade come i pirati infestavano le rotte marittime. Sui briganti c'è una vastissima letteratura e le fiabe son piene di ladroni e di assassini di strada. Si trattava di personaggi temibili, ma non è raro vederli descritti nei racconti e nelle favole con simpatia e con bonario umorismo, come in questo episodio del Gil Blas di Alain-René Lesage (1668-1747) che narra d'un ragazzo alla sua prima impresa brigantesca.

... Passando in vicinanza di Ponferrada, c'imboscammo presso la strada maestra di Léon, in un luogo dove, senza essere scorti, potevamo vedere tutti i passanti. Mentre attendevamo, che ci capitasse di far qualche buon tiro, vedemmo un domenicano, che, contro l'uso di quei buoni padri, cavalcava una cattivissima mula. - Grazie al cielo -, esclamò ridendo il capitano - ecco qui un trionfo per Gil Blas. Vada a svaligiare quel frate: e stiamo ad ammirare le sue prodezze -.
Tutti mi animarono all'impresa, ed io: - Signori! - risposi - valorosamente ora spoglierò nudo quel certosino e qui vi condurrò la sua mula -.
- No, no -, mi sussurrò Rolando - che abbiamo a fare di quello scheletro? Accontentiamoci della borsa di Sua Reverenza: questa sola desideriamo da te -.
- Vado dunque, sotto gli occhi dei miei maestri -, dissi - a fare la mia prima prova. Spero che mi onoreranno della loro approvazione -.
Allora uscii dal bosco e m'incamminai verso il frate, pregando Dio che mi perdonasse la mala azione che stavo per fare: da troppo poco tempo ero coi briganti per commetterla senza ripugnanza. Affrontai di botto quel buon padre e, puntandogli al petto la mia pistola, gridai:
- O la borsa o la vita! -
Egli si fermò subito e, guardandomi fisso, senza mostrare alcuno sbigottimento, disse:
- Tanto giovane e già dedito a così brutto mestiere? -
- Sia pur brutto quanto volete -, risposi io - mi duole solo di non essermivi dedicato prima d'ora -.
- Che cecità - soggiunse egli, mostrando di dimenticare le mie prime parole, - lasciate ch'io vi mostri l'abisso... -.
- Ah, caro padre - interruppi io recisamente - lasciate la morale, non son venuto qua per una predica, io, ma per i denari -.
- Denari! - esclamò egli stupefatto. - Voi avete ben cattivo concetto della carità degli spagnoli se credete che noi abbiamo bisogno di questo per viaggiare. Non lo sapete? Ovunque andiamo siamo lietamente accolti e tutti ci danno da mangiare, da bere e da dormire, al solo patto che preghiamo per loro. E neppure quando ci mettiamo per strada portiamo denari, perché confidiamo nella divina Provvidenza -.
- Oh, no no - ripigliai io - voi non v'affidate nella sola Provvidenza, tant'è vero che siete sempre foderati di doppie. Andiamo, padre, finiamola. I miei colleghi che son là nel bosco son seccati d'aspettare; buttatemi cotesta borsa o vi friggo -.
A queste minacce il religioso cominciò a tremare. - Aspettate, - disse - contro la forza la ragion non vale, v'appagherò -. In questo dire cavò fuori una borsa di pelle che teneva sotto la tonaca e la lasciò cadere ai piedi del mio cavallo. Allora gli accennai che poteva continuare il suo viaggio: non se lo fece dire due volte dando le calcagna nella pancia della mula che galoppando si tolse in un attimo ai miei occhi.
Sceso da cavallo, pigliata la borsa che sentii pesante assai, e rimessomi in sella, corsi al bosco, dove impazienti i ladri si rallegrarono con me, come se la vittoria che avevo allora conseguito mi fosse costata molto. E appena mi diedero il tempo di mettere piè in terra tutti mi vennero addosso per abbracciarmi esultanti.
Dopo tante esaltazioni, che invero non meritavo, si rivolsero al bottino da me fatto.
- Vediamo, vediamo - dicevano - ciò che il frate teneva chiuso nella sua borsa; dev'essere ben fornita, perché questi buoni padri non viaggiano da pitocchi -.
Intanto il capitano slegò la borsa, l'aprì e ne cavò due o tre pugni... di medagliette di rame con alcuni agnusdei e qualche scapolare. Alla vista di questo furto di nuova specie, i ladri mi vollero crepare dalle risa.
Nessuno mi lasciò immune dai suoi frizzi, ed il capitano concluse dicendomi:
- In fede mia, Gil Blas, io ti consiglio da vero amico di non immischiarti più coi frati, perché la sanno assai più lunga di te. -...

VIAGGIATORI ASIATICI IN EUROPA

Non è stata solo la civiltà occidentale a conoscere il gusto per i viaggi. Mentre gli Europei si spingevano in quello che per loro era il «lontano Oriente», dall'Oriente altri viaggiatori giungevano a visitare l'Europa. Alla fine del XIII secolo, grazie al fatto che la pax mongolica garantiva i traffici e i viaggi in gran parte del continente euroasiatico, un viaggiatore di Pechino, Rabban Sauma, visitò l'Europa, fermandosi a Roma e Parigi. Nella seconda metà del XVI secolo e all'inizio del successivo, due ambasciate giapponesi visitarono l'Europa accolte con simpatia e curiosità.
Ma se si tolgono questi episodi isolati, si può dire che nell'Estremo Oriente la pagina dei viaggi (almeno dei viaggi verso il nostro continente) si sia aperta solo nella seconda metà del secolo scorso. In quel momento la Cina si trovava sotto una colonizzazione di fatto se non di diritto; il Giappone aveva appena aperto i propri porti e cercava disperatamente di sfuggire al destino del Celeste Impero. Il viaggio in Occidente diventò una necessità per quanti, in Cina e in Giappone, si interrogavano sul futuro del loro Paese. Tradizionalisti e innovatori, politici e intellettuali si recavano in Europa e in America a cercare il segreto di una cultura e di una organizzazione che sembravano imbattibili.
A volte questi viaggi erano il frutto di un'iniziativa privata o il risultato di sforzi e sacrifici indicibili affrontati per poter compiere i propri studi nelle università occidentali; a volte erano il frutto di decisioni governative. Come esempio tipico del secondo caso, si può citare la missione giapponese che prende il nome dal suo capo Iwakura e che a partire dal 1871 compì un lunghissimo viaggio in America e in Europa: si trattava di una missione numerosissima, della quale faceva parte più di metà di quello che possiamo chiamare il «governo» giapponese. Possono essere anche ricordati, tra la fine del secolo scorso e l'inizio del nostro, i viaggi del riformatore confuciano cinese K'ang Yu-mei. Questi fu anche in Italia; per lui come per altri orientali il successo italiano nel raggiungimento dell'indipendenza e dell'unità nazionale sembrava particolarmente significativo e motivo di speranza: gli Italiani apparivano infatti assai meno ricchi, benestanti e «bianchi» dei nordeuropei e il loro successo politico sembrava di buon auspicio per gli infelici cinesi.
Anche per gli Indiani l'Europa divenne una realtà da andare a conoscere solo a partire dal XIX secolo. In precedenza, infatti, tutti i contatti tra le due aree erano avvenuti in senso inverso, dall'Occidente verso l'India. Tra i più illustri viaggiatori indiani in Europa è da ricordare Ram Mohan Roy (1772-1832), il grande riformatore sociale e religioso bengalese, fondatore del Brahmo - Samay. Sua meta, come del resto quella della maggior parte dei suoi connazionali in viaggio per l'Europa, fu l'Inghilterra.
Chi invece visitò un certo numero di Paesi (Italia, Francia, Inghilterra) fu, verso gli anni '80 dell'Ottocento, il famosissimo poeta Rabindranath Tagore (1861-1941), che viaggiava in compagnia del fratello Satyendranath. Le impressioni e le esperienze di quel viaggio sono raccolte nel libro Lettere di un viaggiatore in Europa. Sbarcato a Brindisi, egli attraversò tutta la penisola, ammirandone il paesaggio, la natura e le donne; fu poi in Francia, di cui lo affascinò specialmente Parigi con i suoi bagni turchi, l'Esposizione Universale e lo stile dei suoi edifici; Londra, invece, così grigia, fangosa e affollata, lo deluse molto, come pure altre zone dell'Inghilterra.
Più o meno nello stesso periodo visitò molte Nazioni europee anche una curiosa figura di filantropo di Bombay, B. M. Malamari, il quale girando per Germania, Francia, Italia, Inghilterra, trovò punti di contatto o somiglianze tra i vari aspetti della vita e dei costumi occidentali e quelli del suo Paese, tanto che dichiarò che le donne tedesche ricordavano le «loro sorelle Parsi» o che il popolino napoletano parlava una specie di dialetto asiatico. Tra gli indiani che soggiornarono in Europa ci fu anche il «Mahatma» Gandhi (1869-1948), ma come avvenne in seguito per molti altri suoi connazionali, lo scopo del suo viaggio era soprattutto pratico, cioè di studio: stabilitosi a Londra per un certo periodo di tempo, infatti, vi conseguì la laurea in giurisprudenza.

IL GUSTO DI VIAGGIARE

Che cosa dunque spinge gli uomini a viaggiare, a spostarsi in massa o isolatamente da una regione all'altra, a esplorare terre sconosciute e a sfidare la probabile diffidenza di gente di diversa cultura e di diverse abitudini? In generale sembrano prevalere i motivi di carattere economico: la ricerca di terre da mettere a coltura, di risorse da sfruttare, di occasioni di lavoro, di opportunità commerciali. Anche il bisogno di sottrarsi alla prigionia, alle persecuzioni, alla schiavitù, alla fame, alla guerra è stato in ogni epoca, ed è tuttora, la ragione dell'incessante movimento di masse innumerevoli di persone: profughi, esuli, evasi, sconfitti di ogni sorta.
Il viaggio è in questi casi una fuga. Se invece a motivarlo è quella volontà di dominio che si manifesta con brutalità pressoché uguale nei conquistatori e nei missionari, il viaggio assume la forma di una spedizione militare, di un'impresa coloniale, di una missione civilizzatrice o di una combinazione delle tre (come spesso è accaduto nella storia).
Non è detto che a indurre gli uomini a viaggiare (e tanto meno a esplorare terre sconosciute) siano sempre e soltanto cause di forza maggiore o motivazioni d'ordine pratico, come l'interesse economico o la volontà di conquista. Il migliore dei motivi è pur sempre il gusto di viaggiare e di esplorare, che è fatto di tante cose e si presenta con tante facce diverse, dall'interesse scientifico al piacere dell'avventura e del rischio, dal desiderio di fare esperienze o di conoscere cose nuove allo spirito agonistico e sportivo, che anima, per esempio, quella peculiare categoria di esploratori che sono gli alpinisti.
è difficile dare una definizione del gusto di viaggiare. è più facile dire che cosa non e. Non è, per esempio, la smania di viaggiare, né ha nulla a che fare con la moda del viaggio. Un buon viaggiatore non è necessariamente un collezionista di viaggi o di timbri sul passaporto.
Forse ci può aiutare l'osservazione che a metà Settecento faceva il filosofo inglese David Hume a proposito del gusto in generale, per cui «la perfezione di ogni organo o facoltà consiste nel percepire con esattezza i suoi oggetti più piccoli e nel non lasciare sfuggire nulla alla propria conoscenza e alla propria osservazione».
Il più fine gusto di viaggiare, allora, potrebbe coincidere con questa capacità tutta qualitativa di guardarsi intorno, che consente di fare grandi e significativi viaggi a due passi da casa sapendo cogliere e apprezzare anche le piccole cose.
Una famosa operetta dello scrittore francese Xavier de Maistre (1763-1852) si intitola Viaggio intorno alla mia camera. Xavier de Maistre, che era ufficiale del re di Sardegna, la compose nel 1794, mentre era agli arresti domiciliari per aver partecipato a un duello. Quello di de Maistre è evidentemente un gioco, suggerito dal desiderio di evadere, sia pure solo con la fantasia, dalla situazione di costrizione in cui era venuto a trovarsi. Ma l'operetta ha la struttura di una vera relazione di viaggio, e comincia, secondo le buone regole dell'esplorazione, con la determinazione della latitudine e della longitudine, per proseguire con la minuziosa descrizione dei mobili, degli arredi, dei quadri appesi alle pareti. Ogni oggetto, per consueto che sia, sollecitato dall'immaginazione e ingigantito dall'osservazione scrupolosa, diventa occasione di imprevedibili scoperte: quello di de Maistre è un viaggio nell'immobilità, un itinerario puramente mentale, percorso in intensità piuttosto che in estensione.
In questo senso si può dire che siano stati dei grandi viaggiatori anche personaggi noti per essere dei sedentari, come il filosofo tedesco Immanuel Kant (1724-1804), che non si è mai mosso dalla sua città natale, Koenigsberg (oggi Kaliningrad, in territorio sovietico), ma era un appassionato lettore di libri di viaggio, o come il poeta e scienziato ligure Camillo Sbarbaro (1888-1967), che esplorò il mondo dei licheni sui muri e sui sassi di casa sua e che, grazie anche agli scambi con botanici di tutto il mondo, riuscì a formare preziose raccolte di quei vegetali, e, in questo modo, a «viaggiare» in regioni lontanissime senza mai allontanarsi troppo dalla sua.

IL TURISMO DEI CONTADINI

I contadini, ha detto Nuto Revelli, hanno conosciuto due tipi di turismo: il «turismo di guerra» che li ha portati a morire su tutti i fronti senza sapere il perché, e il «turismo di lavoro», ossia l'emigrazione, temporanea o permanente, da cui bene o male qualche cosa hanno ricavato: un po' di soldi, o almeno delle esperienze di vita. I contadini intervistati appaiono colpiti dalla guerra assai più che dall'emigrazione.

Sul bastimento - ha scritto Revelli a proposito dei ricordi che gli ex-emigranti conservano della traversata atlantica - sono io che sollecitavo un pochino il discorso, altrimenti loro ti dicevano: - beh, 'n quindes dì suma arivà a Nuova York - e chiuso.

E a proposito del lavoro:

... Non drammatizzavano il lavoro, per bestiale che fosse [...] Questo lavoro ce l'avevano tanto addosso, che non gli davano importanza. Intanto, lo avevano scelto volontariamente. La guerra li sciocca perché è violenza; anche il lavoro era violenza, però era una violenza accettata volontariamente, almeno secondo loro. La guerra no. La guerra era imposta da fuori...

Nuto Revelli è nato a Cuneo nel 1919, dove ha sempre vissuto. Durante la seconda guerra mondiale è stato ufficiale degli alpini in Russia e poi, dopo l'8 settembre, comandante partigiano nel Cuneese. Ha cominciato la sua attività di scrittore e di ricercatore spinto dal bisogno di documentare attraverso i propri diari e i propri ricordi (Mai tardi, 1946 e La guerra dei poveri, 1962) o attraverso le lettere e le testimonianze dei soldati (La strada del davai, 1966 e Ultimo fronte, 1971) le esperienze della ritirata di Russia e della guerra partigiana, che molti avevano interesse a deformare o addirittura a rimuovere dalla memoria della collettività. Durante queste esperienze Revelli aveva avuto modo di conoscere da vicino mentalità e cultura dei contadini della sua regione, eternamente sfruttati (come braccia da lavoro o come carne da cannone) ed eternamente dimenticati.
Da questa familiarità con il mondo contadino sono nate le sue opere maggiori n mondo dei vinti, 1977 e L'anello forte, 1985, in cui ha pubblicato circa duecento storie di vita, tra le moltissime raccolte in anni di conversazioni, interviste, incontri su e giù per le valli del Cuneese. Più avanti vedremo come sia possibile, attivando adeguate capacità di osservazione, compiere grandi viaggi ed emozionanti esplorazioni senza allontanarsi da casa: l'inchiesta compiuta da Revelli sul «mondo dei vinti» appartiene a questa categoria. Oltre che una straordinaria galleria di personaggi, le storie di contadini da lui raccolte costituiscono un'eccezionale documentazione sulla società rurale tradizionale nel momento della sua dissoluzione, dagli inizi del secolo al secondo dopoguerra.
Dall'introduzione a Il mondo dei vinti riportiamo le pagine che Revelli ha dedicato alla mobilità contadina. Nel Cuneese l'emigrazione era diretta in Francia (ed era prevalentemente un'emigrazione a carattere stagionale) o in America (ed era spesso un'emigrazione definitiva, anche se l'obbiettivo dei più era di rientrare in patria dopo aver messo insieme un po' di soldi). Quello che stupisce, specialmente negli emigranti oltre Oceano, è come questa povera gente si sia fatta assai poco sgomentare dalle enormi distanze, dai disagi e dai tempi lunghi dei trasferimenti, dalla diversità degli ambienti che ha dovuto affrontare: per loro, nonostante tutto, l'effetto di spaesamento è stato minimo. L'America a momenti è come un altro Piemonte - dice uno degli emigranti intervistati da Revelli. è lo stesso che a un cow-boy che gli si rivolge in dialetto piemontese risponde: sun pà piemunteis, sun 'd Saluse -.

... Il tema «lavoro» è scritto sul viso cotto del contadino, è scritto sulle mani larghe, di cuoio. Il contadino che lavorava da un sole all'altro non moriva di fame, ma non alzava la testa.
L'emigrazione era l'unica via di scampo, l'unica strada della speranza, l'unica scelta di civiltà di cui il contadino povero disponeva. Le montagne che ci separano dalla Francia era come se non esistessero.
Emigravano i contadini della pianura, della montagna, delle Langhe. - Chi non emigrava non era gente - sentenzia Michele Giuseppe Luchese, di Roccasparvera. Ogni autunno, dopo il raccolto delle castagne, le valli erano percorse dalle lunghe file degli emigranti stagionali in cammino verso il confine, verso la Francia. Dall'alta Valle Varaita emigravano le famiglie al completo: si portavano al seguito i neonati, nelle culle, come in un trasloco da una casa all'altra.
La Francia ci sopravanzava di almeno cinquant'anni in fatto di progresso, di benessere: in Francia l'industria era florida e l'agricoltura avanzata. Nel 1910 un contadino di Barbaresco, da Tolone scrive al padre, e gli descrive la macchina favolosa che realizza gli scassi: «Qui nelle vigne ci sono due grossi argani che tirano un grosso aratro, nen sempre cavè, cavè [non sempre zappare, zappare], gli scassi vengono fatti a macchina, così in pochi giorni la vigna è pronta per l'impianto». Subito il padre risponde al figlio, gli dice: «Io qui non ne parlo con nessuno della macchina che fabbrica gli scassi. E tu quando farai ritorno a Barbaresco, cerca poi di non dire a nessuno quanto hai visto. La gente non ti crederebbe, e diventeremmo solo la favola del paese». Nelle campagne del Nizzardo i padroni invitano i nostri contadini a non raccontare le storie delle masche: - Sono soltanto stupidaggini, noi non vogliamo che spaventiate i nostri figli -.
La Francia ha fame di mano d'opera capace e rassegnata, ha fame di mano d'opera artigiana, operaia, contadina. Padre e figlio che emigrano in Francia con un mestiere artigiano, con un mestiere da sellaio o da bottaio, in cinque mesi di lavoro e di economie incredibili riescono a risparmiare quanto occorre per acquistare una vacca. Le paghe contadine e operaie sono modeste. Niente libretti di lavoro, niente assicurazioni sociali. Nelle miniere chi muore, muore. Ma il contrasto tra la miseria del Piemonte e il benessere della Francia invita a ben sperare. Non poca dell'emigrazione stagionale tende a trasformarsi in permanente, sono migliaia i cuneesi che scelgono la Francia come unica patria.
Emigrano anche i bambini, scappano da casa tanto hanno nel sangue il discorso del lavoro, dei soldi, della Francia. Bertu del Düca ha dodici anni quando scappa da casa e raggiunge la «perriera» [cava di gesso] di Nizza. Lavora alcuni mesi, e poi fa ritorno a San Michele di Cervasca. Come si avvicina al cortile di casa, come intravvede la nonna minacciosa che lo attende al varco, Bertu le muove incontro ostentando sul palmo della mano una moneta, tutti i suoi risparmi. - Beh! L'as vagnà 'd pì ti che 'n preve - [Beh! Hai guadagnato più tu che un prete], gli dice la nonna, che intasca le poche lire e lo perdona. - Se volevamo vedere come erano fatti i soldi dovevamo andare in Francia - dicono tutti i miei testimoni.
Anche il flusso verso le Americhe era notevole. Il contadino che emigrava in Argentina si ambientava facilmente: riusciva a capire «da lingua della Castiglia», riusciva a comunicare, a farsi intendere. Il contadino che emigrava negli Stati Uniti incontrava invece delle difficoltà enormi.
Bastava un attimo di disperazione, di coraggio, di ribellione, perché nell'animo del contadino scattasse la molla dell'America. Bastava una disgrazia, una tempesta, e la risposta era immediata. Il contadino non analizzava preventivamente le difficoltà che avrebbe incontrato. Sapeva che nel Nuovo Messico o in California il lavoro non mancava, era il mito dell'America che lo spingeva a rischiare, ad andare allo sbaraglio. «L'agenzia» gli risolveva tutti i problemi burocratici, lo assisteva fino al momento dell'imbarco. Poi il viaggio che non finiva più, le bigatere sotto il livello dell'acqua, il rancio servito nei gavettini come ai soldati. A Napoli l'incontro con i «terroni», con gli emigranti del meridione, - gente ancora più povera di noi, gente che mangiava tanto e sempre, e poi vomitava -. A Palermo l'incontro con gli emigranti algerini, marocchini, turchi, e la scoperta che - al mondo siamo tutti uguali, tutti di carne e ossa, i cristiani e i non cristiani, i neri e i bianchi -. Era dai sola dell'Albese che il nostro emigrante doveva guardarsi: i sola si pagavano le spese del viaggio cercando i foi da plè, i patiti del gioco d'azzardo.
A New York la visita medica, i «non idonei» segnati sulla schiena con il gesso, - con un marchio come le pecore -. Attorno al porto era tutto un fiorire di trattorie piemontesi, sarde, venete, calabresi, siciliane, così l'emigrante trovava subito la trattoria giusta, dove i padroni lo accoglievano parlandogli in piemontese o in patois, dove magari gli offrivano un piatto di polenta e coniglio. Era in questa trattoria amica che arrivavano le offerte di lavoro: telefonavano da lontano, dalle miniere del Washington o dell'Oklahoma, e cercavano un po' di gente in gamba, una trentina di Piemontesi. L'emigrante non ci pensava su due volte, rinunciava subito al Nuovo Messico o alla California, accettava al volo la nuova offerta di lavoro. L'indomani era già nella stazione ferroviaria, tra la selva dei binari, come un sordomuto. Si metteva nel nastro del cappello il biglietto del treno, così i ferrovieri «leggevano» e gli indicavano il binario giusto. Tre giorni e tre notti di viaggio, poi l'arrivo in un villaggio squallido, di baracche. Poche ore per ambientarsi, l'incontro con il paesano di Valdieri o di Rittana, la riconferma che - il mondo è proprio piccolo -. Poi la vita sul fondo di una miniera, guadagnando una paga favolosa, tre dollari tutti i giorni dell'anno. Niente «libretti di lavoro», niente «assicurazioni sociali». - Anche negli Stati Uniti chi muore, muore, e il lavoro continua -.
Saranno le guerre a tagliare le strade dell'emigrazione, la «piccola guerra» di Libia prima, la «grande guerra» poi...

L'AMERICA A MOMENTI È COME UN ALTRO PIEMONTE

Giovanni Giacomo Ruatta, nato alla frazione Rio Torto di Verzuolo, classe 1885, contadino.

... Eravamo nove di famiglia, io, sei sorelle e due fratelli, orfani di padre e madre. Vivevamo basta che sia, in un ciabutinot di dodici giornate, eppure tutti in salute, una salute di ferro. Mangiavamo.
Nel 1903 mio fratello Sandro, era della classe 1881, torna dalla Francia dopo due anni di miniera e mi fa: - 'Nduma 'n Merica, mi l'hei i sold per 'I viage e tüt - [- Andiamo in America, io ho i soldi per il viaggio e tutto ciò che occorre -]. Sandro suonava l'armonica, sul bastimento avremmo anche avuto un po' di allegria, sei o sette giovani di Piasco e Villanovetta decidono di unirsi a noi, la società (l'agenzia della società di navigazione) di Saluzzo ci organizza il viaggio, centocinquanta lire la spesa del biglietto a testa. Il più giovane ero io, con diciassette anni. Abbiamo pensato: - Della campagna siamo pratici abbastanza, poi se c'è da andare nelle mine andiamo nelle mine, a casa c'è poco da guadagnare, laggiù il vitto è a buon prezzo, e poi la paga è superiore -.
Siamo partiti in silenzio, vicino a Natale. Ci siamo imbarcati a Genova. Sul bastimento spagnolo «Manuel Calvo» eravamo tutti emigranti, trecento e passa. A Napoli e a Palermo ne abbiamo caricati altri, solo uomini, della bassa Italia. Mangiare si mangiava. Ogni squadra andava a prendere la minestra alla cucina con un grosso catino, poi veniva distribuita 'n tei piatlin 'd tola [nei piattini di latta].
Barcellona, Malaga, Cadice, bei posti. Poi diretti a New York. Prima dello sbarco la visita medica: mi hanno guardato in faccia, fatto buono, e via. Nevicava, quarantaquattro gradi sotto zero, noi non pativamo niente, noi avevamo solo un giaccone alla bella meglio, gli altri tutti incappottati.
In un albergo vicino al porto i padroni erano Italiani, Piemontesi anche, e ci dicono subito: - Oggi facciamo la polenta e coniglio uso Piemonte -. Intanto dalle miniere lontane duemila chilometri telefonano se c'è qualcuno che vuole andare nelle mine. Noi eravamo destinati per andare diretti in California, ma la proposta del padrone dell'albergo ci sembra conveniente, ci dice: - Hanno telefonato dalle miniere del Colorado: se andate lì lavorate sei mesi con una bella paga, poi vi pagano il viaggio per andare in California gratis -.
Due giorni e mezzo di treno e arriviamo a Starville, l'America a momenti è come un altro Piemonte, ci sono tutte le lingue ma riusciamo a farci capire. Prendiamo alloggio in una casa della compagnia delle miniere, noi nove assieme, ci facciamo noi il mangiare. Una sera un albergatore sente Sandro che suona l'armonica e ci vuole tutti nel suo locale: è un albergo di Piemontesi, e il padrone offre a Sandro di suonare tutte le sere guadagnando una buona paga. Nel lavoro di miniera c'è un po' di pericolo, ogni tanto scoppia il gas, sbatte lontani i travi. Allora dico a Sandro: - è meglio che tu non venga più nella mina, tu hai solo da farci da mangiare, e poi vai a suonare all'albergo e guadagni la tua buona paga -. Nell'albergo dove suonava c'erano sempre centinaia di operai, si ballava tutte le sere, c'erano Italiani, Francesi, Tedeschi, Russi, sono bravi i Russi, brava gente e lavoratori, andavamo d'accordo.
Lavoravamo in una mina da carbone, sette otto ore al giorno: c'era un po' di pericolo ma armavamo sempre, toccavamo col picco per capire. Guadagnavamo sette otto dollari al giorno, tanti in proporzione dell'Italia che si guadagnavano due lire al giorno. Il mangiare costava poco, con uno scudo al giorno, con cinque lire, con un dollaro, si mangiava a volontà.
Sei mesi, poi comincia ad andare male, comincia lo sciopero, tutte le miniere ferme perché gli operai volevano le paghe differenti. Noi eravamo per gli scioperi. L'Unione, una specie di sindacato, dava da mangiare gratis a chi scioperava, una minestra basta che sia, roba che 'ndasìa pà vaire [roba scadente, cattiva]. Allora siamo andati con i cow-boy, a un mestiere un po' selvaggio, a governare le bestie, a mungere. Ci davano da mangiare.
Poi abbiamo sentito che in California c'erano dei Piemontesi, gente dei nostri. Ci siamo spostati a San Francisco, abbiamo trovato lavoro con i muratori che costruivano fabbricati per una grossa ditta americana, palazzi di sessanta piani di altezza. Un mattino, nel 1905, sono lì che mi sto alzando, sento un rumore, vu vu vu, mi dico: - Scommetto che è il terremoto -. L'è bütase a supaté [Si è messo a tremare], tutti i palazzi erano di legno, in un momento tutta la città prende fuoco, la terra si era abbassata, le rotaie della ferrovia erano per aria. Tanti i morti. Siamo scappati un po' fuori in montagna a vivere sotto le tende. Poi siamo andati nel Washington, a lavorare in una galleria per treni, con la compagnia Gret Nord. C'erano dei mille operai. A picco e pala guadagnavamo sei sette dollari al giorno, la compagnia si tratteneva un dollaro per la mensa. Sandro di giorno lavorava nella galleria con noi, di notte andava a suonare l'armonica negli alberghi: dava lezione di armonica, cominciava a commerciare, a far arrivare armoniche dall'Italia.
Dopo un anno il lavoro alla galleria è finito, troviamo una buona paga nelle grandi boschine attorno a Pod Costa, a disboscare. Buttavamo giù grosse piante di legno rosso radut, un legno dolce che con gli anni e l'umidità diventava più duro del cemento, serviva a costruire palazzi. Eravamo dei mille operai.
Due anni e passa, poi decido di girare un po' l'America a piedi seguendo il destino, da solo soletto con un fagotto sulle spalle. Dove trovo lavoro mi fermo, alla buona ventura. A Gilroj, vicino a San Giuseppe di California, in un'osteria toscana, incontro un cow-boy che mi dice: - Nt' vede smii che sii piemunteis - [- Nel vederti sembra che tu sia piemontese -]. E io: - No sun pà piemunteis, sun 'd Salüse - [- No, non sono piemontese, sono di Saluzzo -]. Mi offre un lavoro mi accompagna a Monte Madonna in una delle grosse cascine del miliardario Miller Nloc, un grande cow-boy, del quale era fattore. L'indomani, su un bel cavallo rosso e sella bianca arriva Miller Nloc, un uomo di settant'anni, 'n piota. Miller Nloc mi racconta i suoi passaggi, di quando girava in lungo e in largo per le praterie con sei uomini armati di pistole. Come incontrava un villaggio cercava l'osteria: primo saluto, un colpo di pistola, ben, nel pavimento di legno del salone. Poi chiedeva: - Ho fatto qualche danno? - E offriva da bere a tutti...

IL "GRAND TOUR" E IL VIAGGIO ROMANTICO

Il grand tour è il giro delle principali città d'Europa (e soprattutto d'Italia) che nei primi secoli dell'età moderna i giovani delle classi ricche e colte, specialmente dei Paesi del Nord, intraprendevano a conclusione dei loro studi. Erano sempre confortevolmente equipaggiati e guidati da un istitutore. I più facoltosi si facevano accompagnare anche dal medico e magari dal cuoco. Talvolta il loro seguito era completato da un segretario o addirittura da un pittore, incaricato di fissare col disegno i paesaggi, le città, le opere d'arte e insomma le cose più interessanti osservate nel viaggio.
Il grand tour era una vera e propria istituzione educativa, dotata di regole precise relative sia agli itinerari (ispirati a interessi prevalentemente storici ed artistici) sia ai modi di viaggiare. Gli itinerari, che si erano venuti gradualmente precisando, comprendevano in genere Francia, Paesi Bassi, Germania e Italia. L'Italia costituiva una tappa obbligata: come grande deposito di storia, invitava il viaggiatore alla riflessione politica, mentre per la straordinaria concentrazione di opere d'arte offriva un'esperienza di valore ineguagliabile per l'affinamento del gusto.
Tra quanti contribuirono a fissare le regole del grand tour vi fu anche, all'inizio del Seicento, il filosofo inglese Francesco Bacone. Bacone non solo consigliava il viaggio in Europa per il suo generico valore formativo, ma raccomandava di assumerlo come occasione per attente e approfondite osservazioni nel quadro di un preciso metodo di vita intellettuale. A questo scopo era richiesta però un'accurata preparazione del viaggio da parte del giovane e del suo istitutore, una buona conoscenza delle lingue, buone letture, e soprattutto la scrupolosa tenuta di un diario.
Oltre che un itinerario convenzionale, il grand tour seguiva anche un calendario abbastanza rigoroso, organizzato in funzione delle stagioni più opportune per i trasferimenti, ma soprattutto delle feste e delle occasioni mondane. Il Natale, per esempio, era di rigore passarlo a Roma, mentre il Carnevale andava seguito a Venezia. In ogni città era d'obbligo (procurandosi le necessarie lettere di presentazione) rendere omaggio alle personalità più interessanti della politica, delle scienze, delle arti e della letteratura, farsi accogliere nei salotti alla moda, seguire i principali avvenimenti della stagione teatrale. è facile capire come il grand tour potesse durare anche due o tre anni: tre anni, anzi, era considerata la durata ottimale per compiere senza affanno le dovute esperienze.
Per quanto riguarda l'Italia ancora per buona parte del Settecento il limite meridionale toccato dal grand tour restò Napoli, considerata un po' la città di confine tra il mondo civilizzato e quello misterioso e scoraggiante dei briganti e delle «primitive» popolazioni meridionali. La cultura romantica cambiò la mentalità del viaggiatore. Nacque il gusto del primitivo e dell'avventura e con esso una certa predilezione per il viaggio meno confortevole, per esempio per il pedestrian tour (viaggio a piedi) come quello che all'inizio dell'Ottocento compì il tedesco Johann Seume, che con pochissimo bagaglio (ma con una sacca di libri) in sei mesi percorse a piedi tutta la Penisola, Sicilia compresa.
All'inizio il grand tour aveva un significato squisitamente educativo, come momento terminale del curriculum giovanile delle classi dominanti. Più tardi, invece, all'approssimarsi dell'Ottocento e con l'affermarsi di una sensibilità di tipo romantico, il desiderio di evasione finì col prevalere sul bisogno di istruzione. Il grand tour diventò per alcuni una fuga dall'avanzante società delle macchine (e dei fumi e dei rumori) alla riscoperta di paesaggi suggestivi e di ambienti ancora non contaminati dall'infezione industriale; per altri, e cioè per i giovani signori del Nord, diventò un modo di sottrarsi alla malinconia dei lunghi inverni della patria nel tentativo di recuperare salute e gusto di vivere sotto i cieli azzurri del Mediterraneo.
Il rappresentante forse più emblematico del viaggiatore romantico è un personaggio creato da lord Byron (1788-1824) a propria immagine: Aroldo, protagonista del poema Childe Harold's Pilgrimage (Pellegrinaggio di Aroldo il Cavaliere, pubblicato tra il 1812 e il 1818), un giovane aristocratico misantropo e ribelle, che, dopo un'esistenza condotta nell'ozio e nel vizio, dà inizio ad un inquieto vagabondare in Spagna, Portogallo, Italia, Grecia, lungo il Reno e sulle Alpi: i luoghi classici del viaggio romantico (di cui Byron fornisce una sorta di guida sentimentale, ad uso specialmente del pubblico femminile). Aroldo cerca ovunque la solitudine, predilige gli aspri spettacoli della Natura, i paesaggi «sublimi» (un termine assai amato dagli scrittori romantici):

... Ove sorgevano i monti, ivi erano amici per lui; ove gonfiava l'Oceano là era il suo focolare; ove si stendeva un cielo azzurro ed un ardente clima, egli aveva la smania e il potere di vagare; il deserto, la foresta, la caverna, la schiuma dei marosi, erano compagni per lui; essi parlavano una comune lingua, più chiara di quella dei libri della sua patria, che egli spesso soleva abbandonare per le pagine della Natura...

è in questa fase tarda che si collocano le premesse del turismo moderno («turismo» è una parola ancora più recente del fenomeno che designa: viene dal francese tour = «giro» attraverso il verbo inglese to tour = «viaggiare», da cui, tra l'altro, Touring Club). Sulla scia della valorizzazione romantica del paesaggio pittoresco o sublime, dei climi dolci e dei cieli puliti del Mediterraneo, il turismo ha promosso la nascita e lo sviluppo di una serie di nuove stazioni di soggiorno, di villeggiatura e di cura, specialmente nelle Riviere francese e italiana e nell'arco alpino, che fin dal primo Ottocento si sono venute affiancando, negli itinerari dei viaggiatori, alle città d'arte e di storia, tradizionali tappe del vecchio grand tour.

HOBOS

Nel 1896 venne inaugurata la prima linea ferroviaria transcontinentale degli Stati Uniti, la Central Pacific Railway: a quel tempo, la rete ferroviaria americana poteva vantare complessivamente più di 30.000 miglia di binari impiantati e nel decennio tra il 1880 e il 1890, nel momento del suo maggiore incremento, ne vennero aggiunte più di 70.000. Questa rapida espansione del sistema di trasporto ferroviario era sintomo del grande sviluppo dell'industria, soprattutto di quella estrattiva e di quella metallurgica. La possibilità di utilizzare una vasta rete di comunicazioni provocò, a sua volta, un ampliamento dei territori sfruttabili, in particolare di quegli Stati dell'interno fino a quel momento abitati solamente dagli indiani.
Lo sviluppo industriale era in così rapida accelerazione che l'America poteva permettersi di ignorare il sempre più evidente disagio di quelle fasce sociali che ne erano rimaste escluse o che ne erano le vittime. Ma proprio le strade ferrate divennero il simbolo e il rifugio, oltre che il mezzo di trasporto, di un vasto gruppo di lavoratori e di vagabondi senza occupazione, che avevano scelto o si erano trovati nelle condizioni di non avere né una fissa dimora né un lavoro stabile: Gli hobos, come vennero chiamati già intorno al 1890, con una parola di origine imprecisata, forse derivante, per contrazione, da hoe-boys («zappatori», «braccianti»: hoe, in inglese, è la zappa).
Gli hobos avevano cominciato a spostarsi da un punto all'altro degli Stati Uniti precisamente per la costruzione delle ferrovie. A partire dall'ultimo decennio del XIX secolo e almeno fino all'introduzione della mietitrebbiatrice, molti hobos si mescolarono alle schiere dei braccianti stagionali liberi, lungo la cosiddetta «fascia dell'orzo» negli Stati del Middle West.
Le due componenti psicologiche caratteristiche degli hobos, la volontà di rimanere indipendenti e quindi la capacità di affrontare la sopravvivenza con le sole proprie forze, e la libertà di continui spostamenti attraverso grandi spazi, potevano contare, nella tradizione culturale americana, su importanti precedenti. Walt Whitman (1819-1892), per esempio, uno dei maggiori poeti americani, aveva scritto intorno alla metà del secolo questi versi (raccolti in Foglie d'erba, 1855):

... Volto verso il Golfo del Messico, o Mannahatta, o il Tennesse, o l'estremo Nord o l'entroterra, Uomo di fiumi, o di boschi, o di campi, in ciascuno di questi Stati, o in quelli della costa, o dei laghi o nel Canada.
Possa io, ovunque viva la mia vita, essere equilibrato in ogni contingenza.
E fare fronte a notte, bufere, fame, ridicolo, accidenti, sconfitte, come sanno le piante e gli animali...

Un hobo di eccezione fu, negli anni giovanili, un altro grande scrittore americano, Jack London, arrivato alla letteratura dopo aver fatto innumerevoli mestieri, non sempre legali e quasi mai rispettabili. Dalla sua esperienza di hobo London trasse ispirazione per il romanzo La Strada, pubblicato nel 1907:

... Io divenni vagabondo - be', a causa del tipo di vita che era dentro di me, della smania di andare in giro che avevo nel sangue e non mi dava pace. [...] Me ne andai per «La Strada» perché non riuscivo a starne lontano [...] perché ero fatto in modo tale che non ce la facevo a lavorare tutta la vita sempre «allo stesso turno»; - be', perché era più facile farlo che non farlo.
Nella Hobo Land la vita offre un volto proteiforme - è una fantasmagoria sempre mutevole, dove avviene l'impossibile e ad ogni svolta della strada l'imprevedibile balza fuori dai cespugli. Il vagabondo non sa mai che cosa capiterà l'istante dopo; vive quindi solo nel momento presente. Ha capito la futilità dello sforzarsi per qualche scopo, e conosce il piacere del lasciarsi portare dai capricci del Caso...

Il treno, ne La Strada, è davvero l'emblema della condizione hobo:

... Da Ovest venne il fischio di una locomotiva. Arrivava nella nostra direzione, diretta ad est. Tra le nostre file ci fu un gran daffare per i preparativi. Lanciando fischi ripetuti e furiosi, il treno arrivò rombando alla massima velocità. Un'altra locomotiva fischiò, e passò un altro treno a tutta velocità, e poi un altro e un altro ancora, un treno dopo l'altro, un treno dopo l'altro...

Una parte dell'eredità degli hobos è stata raccolta negli Stati Uniti ancora negli anni Sessanta, anche attraverso la cultura musicale, quella di Woody Guthrie (1912-1967) e dei cantanti folk, recuperata, tra gli altri, da Bob Dylan (nome d'arte di Robert Zimmermann, nato a Duluth, nel Minnesota, nel 1941) che, nel 1962, dedicava una canzone proprio a «Woody»:

sono quaggiù all'aperto
mille miglia da casa
cammino per una strada
che altri uomini hanno percorso
vedo un mondo nuovo
di genti e di cose
ascolto poveri e contadini
principi e re
[...]
me ne vado domani
ma potrei partire oggi
da qualche parte lungo la strada
un giorno
proprio l'ultima cosa
che vorrei fare
è poter dire
ho fatto anche io molta strada...

Quella degli anni Sessanta fu insomma una nuova versione del viaggio come sradicamento, in opposizione ad un sistema sociale e ad una cultura che propone la stabilità e l'ordine come valori.

VAGABONDO

Il tema del vagabondaggio come affermazione di libertà, ribellione contro l'ottusità e il conformismo dei beati possidentes, occasione per esperienze nuove e più intense (la riscoperta della natura, per esempio, o quella della solidarietà con occasionali compagni di viaggio), rientra nella più schietta mitologia americana. Tra gli anni Cinquanta e Settanta questo tema ha percorso di nuovo molte manifestazioni della cultura americana sull'onda soprattutto della protesta giovanile, espressa prima dagli intellettuali della cosiddetta beat generation, e poi, su un terreno più propriamente politico dal movimento per i diritti civili (contro la discriminazione razziale all'interno del Paese) e per la pace (contro l'aggressione degli Stati Uniti al Vietnam).
Sono stati soprattutto i letterati della beat generation (gli scrittori William Burroughs e Jack Kerouac, i poeti Allen Ginsberg, Lawrence Ferlinghetti e Gregory Corso, ecc.) a recuperare il mito libertario e protestatario del viaggio. La polemica beat era particolarmente diretta contro quella sorta di semifascismo spesso presente nella società americana, sotto forma di ottuso o feroce conformismo, e che in quegli anni, con l'esperienza aberrante del maccartismo, era entrato in una fase di insolita virulenza. Il disprezzo espresso dalla beat generation per i valori ufficiali della società americana si può sinteticamente enunciare con la battuta di Gregory Corso: «io non sono contro la società, ne sono fuori». Il vagabondaggio esprimeva nella maniera migliore questo del «mettersi fuori» (più che contro) la società.
Uno dei manifesti dello stile beat (stile letterario e di vita) è stato il romanzo di Jack Kerouac, Sulla strada (On the road), pubblicato nel 1957: è la storia del lungo vagabondare di un ragazzo dell'Ovest, uscito dal riformatorio e con il nomadismo nel sangue, e di un suo amico di New York, con aspirazioni letterarie, che è affascinato dall'irrequietezza del compagno ma alla fine rinuncia a seguirlo. Jack Kerouac (1922-1969), che è stato tra l'altro l'inventore del termine beat, era un ammiratore di London e come London aveva praticato per anni una vita nomade facendo tutti i mestieri (tra cui, emblematici, quello di marinaio e di ferroviere).
Nel cinema il capostipite di una lunga serie di opere destinate particolarmente ai giovani e centrate sul tema del nomadismo è stato il film di Dennis Hopper Easy Rider del 1969, che ebbe uno straordinario successo. Dennis Hopper, che era attore cinematografico, e che con questo film affrontava per la prima volta la regia, nel 1969 aveva appena 33 anni: il suo, dunque, era un vero e proprio youth movie, ossia un film non solo fatto per i giovani, ma fatto da un giovane.

IL CITTADINO E IL MONTANARO

I primi stranieri che la curiosità aveva attirato a Chamonix dovevano guardare questa valle alpina come un rifugio di briganti. Vi andarono infatti armati fino ai denti e accompagnati da una quantità di domestici anch'essi armati. Non osarono entrare in nessuna casa del paese e si accamparono sotto le tende che avevano portato con sé e tennero fuochi accesi e sentinelle di guardia tutta la notte. La testimonianza non è sospetta: è di un cittadino, il ginevrino Horace-Bénédict de Saussure (1740-1799), lo scienziato che promosse nel 1787 la prima ascensione al Monte Bianco.
Questo strano incontro era avvenuto solo qualche decennio prima, ad opera dei soliti inglesi che avevano aperto ai viaggiatori la via al Monte Bianco. Nessuno notò né allora né dopo che la stessa via era percorsa tutti gli anni dagli abitanti di Chamonix che, come quelli delle altre valli alpine, lasciavano periodicamente le loro case per andare a lavorare a Parigi o in Germania. Proprio per questa abitudine migratoria gli abitanti di Chamonix accolsero i primi alpinisti con un atteggiamento molto diverso da quello che costoro, del tutto ignari dell'ambiente della montagna, avevano avuto nei loro confronti. Quegli alpinisti appartenevano a un mondo, quello della città, che i montanari conoscevano assai bene perché vi avevano a che fare continuamente per ragioni economiche, fiscali e militari. A questa conoscenza non superficiale, e alla gelosa difesa delle tradizionali autonomie e libertà montanare, si deve la diffidenza e la selvatica rudezza con la quale essi trattavano viaggiatori e alpinisti e che questi non mancavano di enfatizzare nei loro diari e nelle loro relazioni. Da un punto di vista culturale nell'incontro-scontro tra montanari e cittadini sono dunque questi ultimi che sfigurano: le loro categorie mentali non si dimostrano altrettanto elastiche di quelle dei montanari, che ai fucili e alle paure dei primi alpinisti oppongono l'ironia e l'abitudine di fare la caricatura dei viaggiatori.
De Saussure (autore tra l'altro dei quattro volumi di Voyages dans les Alpes, «Viaggi nelle Alpi», pubblicati tra il 1779 e il 1796) e pochi altri scienziati illuminati hanno aperto la via alla comprensione del mondo e della società alpina, ma questa conoscenza rimane sempre piuttosto precaria, anche per effetto di un'antica tendenza dei cittadini alla colonizzazione della montagna, che le forze locali non sono state in grado di contrastare efficacemente e che si è espressa innanzitutto in termini economici: per lungo tempo la montagna è stata vista come riserva di manodopera e di altre risorse a buon mercato (basta pensare al legname da costruzione o all'acqua per le centrali idroelettriche) a beneficio dell'industria delle città.
Lo stesso sviluppo economico, concentrato nelle città, ha finito con il modificare il rapporto fra il montanaro e il cittadino, ma la logica coloniale di quest'ultimo non ha mai cessato di operare, anzi ha subito un'accentuazione. Contro lo smog delle aree industriali, la montagna è diventata in primo luogo una riserva d'aria buona, il luogo classico della vacanza sportiva. Flussi sempre maggiori di turisti si riversano sulla montagna sia d'estate sia d'inverno. Anche la neve, che un tempo era un ostacolo per il villeggiante e l'escursionista e che ha rappresentato fino a qualche decennio fa un diaframma efficace tra il mondo della montagna e quello urbano, è entrata nel gioco non appena lo sci è diventato uno sport di massa. C'è stato un rivolgimento nei valori ambientali della montagna: un clima particolarmente nevoso, poiché limitava le attività agricole e pastorali, rappresentava in passato uno svantaggio, mentre oggi rappresenta un pregio di cui le comunità montane, sempre più coinvolte dalla pratica degli sport invernali, fanno tesoro.
Con queste forme di turismo che modellano il territorio e il paesaggio con la fitta ragnatela di infrastrutture necessarie alla pratica turistica e sportiva di massa (strade e autostrade, alberghi, ville e condomini, funivie e impianti di risalita che raggiungono anche le quote più elevate dei ghiacciai) usciamo dall'orizzonte del viaggio. Il viaggio comporta infatti il piacere di scoprire nuove mete, nuovi punti di vista, nuovi modi di vedere; comporta il gusto di leggere nel paesaggio i segni di una particolare cultura, di ritrovarvi le tracce di un passato. Ma ben di rado lo sciatore di oggi si accorge che intorno a lui c'è un paesaggio che non è fatto solo di impianti di risalita o di posti di ristoro e che le montagne che lo circondano hanno un nome e una storia e infine che sulla neve e nel bosco si possono leggere altri segni e tracce oltre a quelli lasciati dagli sciatori.
Anche la funzione della montagna come meta di un'impresa sportiva è cambiato: oggi la montagna più che salirla, si scende. Ciò che l'abitante della città sembra gradire di più è il piacere della glisse (come dicono i francesi con una parola nuova che non ha ancora il suo corrispondente italiano), cioè dello scivolare sulla neve possibilmente vergine: «firmare» un pendio con la propria «serpentina». è un atteggiamento psicologico che contrariamente alla grande letteratura sulla montagna (a partire dalla Montagna incantata di Thomas Mann) privilegia la discesa sull'ascesa e non riconosce più l'immagine simbolica della montagna come trait-d'union fra la terra e il cielo. Non mancano per altro i precedenti di un simile atteggiamento. Le cronache di viaggio raccontano infatti che dopo innumerevoli secoli nel corso dei quali l'attraversamento dei colli alpini era stato vissuto come esperienza angosciosa e come un castigo di Dio, i primi viaggiatori che riuscirono a divertirsi in montagna sono stati quelli che nel Settecento si facevano portare dalle guide (dette «marroni») su sedie montate su slitte (dette «ramazze») lungo la discesa del Moncenisio. Alcuni trovarono la discesa tanto esilarante da ripeterla più volte nella stessa giornata. In ogni caso, in discesa come in salita, allora come oggi, il piacere del viaggiatore o del turista è assicurato dal fermo piede dei montanari, che mettono il loro sapere e le loro tecniche di sopravvivenza al servizio dell'ignaro uomo di città.