INTRODUZIONE
Anche i gruppi
umani, come gli animali, hanno un territorio che segnano con le loro opere, le
loro immondizie, gli oggetti che usano, che costruiscono, che buttano via: uno
spazio «umanizzato», entro il quale si muovono con disinvoltura,
trovano nutrimento e protezione. Uno spazio che va difeso da eventuali
aggressioni, ma nel quale, a meno di imprevedibili cataclismi, si vive senza
rischi. Lo spazio di massima umanizzazione per il gruppo familiare è la
casa, il ricovero per eccellenza, «covo» (dal latino cubare =
«giacere», «stare disteso») o «tana» (dal latino
[caverna sub] tana = «buca sotterranea») dell'uomo.
Viaggiare
può indicare una qualsiasi forma di mobilità spaziale: anche il
percorso che un pendolare compie ogni giorno per raggiungere il luogo di lavoro,
o il semplice uscire di casa è un viaggio. In latino l'avverbio domi
(legato a domus = «casa») vuol dire «a casa propria» e anche
«in patria»; il suo contrario foris o foras («fuori»,
«all'esterno») è legato a fores che significa «porta»
(o i battenti della porta). è come dire che il mondo di fuori (da cui
forestiero, ma anche foresta, il luogo pauroso di tutte le fiabe, lo spazio
selvaggio per definizione, dove si va a caccia o a raccogliere funghi, ma dove
ci si può perdere e si può essere aggrediti) comincia dalla porta
di casa.
Nel significato più ricco e più appropriato
viaggiare vuol dire però muoversi nell'ignoto (o nel poco noto). Vuol
dire allontanarsi da «casa», ma non tanto nel senso fisico, materiale,
di abitazione, quanto in quello, morale ed affettivo, di «ambiente
familiare»: allontanarsi da casa nel senso di abbandonare l'orizzonte entro
il quale si consuma l'esistenza quotidiana, e che, grande o piccolo che sia,
è insieme noioso e rassicurante perché è noto, sempre
uguale, privo di pericoli e di sorprese.
Così definita, però,
l'esperienza del viaggio è tutta soggettiva, e cioè relativa alla
cultura di chi viaggia: non conta la lunghezza o la durata del percorso, ma la
qualità e l'intensità delle emozioni che esso procura. Una
caratteristica del nostro tempo è che un turista o un diplomatico o un
uomo di affari può volare da un capo all'altro del mondo ritrovando
dovunque l'ambiente che gli è familiare: la stessa camera d'albergo, gli
stessi cibi, le stesse persone. Costoro, si potrebbe dire, si muovono molto, ma
non viaggiano mai.
E non sono i soli. Molti, per i quali viaggiare non
è che una professione (ferrovieri, marinai, piloti, commessi viaggiatori,
ambulanti, ecc.), finiscono per non avvertire nemmeno il cambiamento di
orizzonti o per lo meno per non considerarlo in alcun modo emozionante: il mezzo
con il quale si trasferiscono da una regione all'altra del mondo è, in un
certo senso, la loro vera casa. Ciò vale in particolare per i marinai, il
cui rapporto con la nave che li trasporta è sempre stato nel passato (e
spesso lo è ancora) emotivamente molto intenso.
La maggior
parte dei marinai - ha scritto sul finire del secolo scorso Joseph Conrad in
Cuore di tenebra - conducono, se è permessa l'espressione, una vita
sedentaria. La loro mentalità è di tipo casalingo, e la loro casa
li accompagna sempre: la nave; e così pure il loro paese: il mare. Una
nave rassomiglia molto ad un'altra nave, e il mare è sempre io stesso.
Nell'immutabilità del loro ambiente le coste straniere, le facce
straniere, la mutevole immensità della vita scivolano via, velate non da
un senso di mistero, ma da un'ignoranza un tantino sprezzante; perché per
un marinaio nulla risulta misterioso, se non forse il mare stesso, che è
il padrone della sua esistenza e imperscrutabile come il
Destino...
Ci sono popolazioni nomadi il cui spazio quotidiano
è talmente vasto, che i loro membri possono percorrere migliaia di
chilometri senza mai uscirne, e cioè ritrovandosi sempre, per così
dire, «a casa». A questo proposito si può ricordare la storia
(raccontata da un etnologo francese) di un ragazzino tebu (una popolazione
sahariana che vive tra il Tibesti e il Fezzan) che nel 1931, a dodici anni, fu
mandato da suo padre a recuperare un cammello prestato a genti di passaggio.
Partito dal Tibesti, dove stava con la famiglia, il ragazzo si aggregò ad
una carovana e raggiunse il Fezzan, dove rintracciò il gruppo che gli
avrebbe dovuto restituire il cammello. Ma il cammello non c'era più: si
era perduto, gli dissero. Il ragazzo raccolse un po' di informazioni in giro e
riuscì a sapere da alcuni viaggiatori che provenivano dal Sud, che il suo
cammello era stato visto tra quelli di un reparto di meharisti francesi diretto
a Madama (nel Nord del Niger). Il ragazzo si aggregò allora ad un'altra
carovana e raggiunse Madama, dove riuscì a convincere le autorità
francesi del suo buon diritto. Nel frattempo, però, il reparto con il
cammello era ripartito per Bilma, quattrocento chilometri più a Sud, e il
ragazzo dovette riprendere il cammino, questa volta a piedi, e con una ghirba
(ossia un otre di pelle per l'acqua) mezza piena sulle spalle per superare due
lunghi tratti, di 90 e di 80 chilometri, del tutto privi di pozzi e sorgenti.
Raggiunto finalmente il reparto, poté recuperare il cammello. Al momento
di tornare indietro, però, si accorse che qualcuno gli aveva rubato la
ghirba. Allora il ragazzo si ripresentò alle autorità di Madama
per denunciare il furto. Il comandante, colpito dalla tenacia del ragazzo,
gliene regalò una tutta nuova e gli diede, per giunta, 25 franchi. -
Adesso vattene a casa! - gli disse. - Neppure per sogno! - rispose il ragazzo. -
Ora che ho un cammello, una ghirba nuova e un po' di soldi vado nel Fezzan a
comprar datteri -.
VICINO E LONTANO
Tra le informazioni relative a un viaggio
la più elementare, la più importante, è quella relativa
alla distanza che separa il punto di partenza da quella di arrivo.
Senonché questa distanza non è tanto in funzione dello spazio,
quanto del tempo. Quando ci mettiamo in viaggio quello che ci interessa
soprattutto sapere è quando arriveremo a destinazione: quello che conta
non è tanto la lunghezza, quanto la durata.
Su un'autostrada un
tratto di cento chilometri è pressappoco uguale ad un altro tratto di
cento chilometri ed entrambi possono essere percorsi all'incirca nello stesso
tempo. Ciò significa che la distanza tra due punti dell'autostrada, per
esempio tra due successive aree di servizio, può essere valutata
ugualmente bene (a una data velocità media) in chilometri o in ore.
L'uniformità di un percorso autostradale è però
l'eccezione, non la regola, come possiamo sperimentare quando, per esempio,
facciamo una gita in montagna. In passato, poi, c'erano ben pochi percorsi che
presentassero una tale uniformità. Ogni tratto di un itinerario
presentava difficoltà diverse, che dovevano essere affrontate con mezzi
appropriati e imponevano al viaggiatore velocità diverse. Il tempo medio
complessivo necessario a compiere un viaggio era il migliore indicatore delle
difficoltà del percorso, e le distanze espresse in ore o giornate di
marcia risultavano spesso più comprensibili di quelle espresse in miglia
o in chilometri.
La stessa presunta imprecisione delle antiche mappe
è in qualche caso da collegare a questo aspetto. Se per andare in una
località vicina era richiesto lo stesso tempo che per andare in una
località lontana è possibile che sulla carta i due percorsi
apparissero pressappoco uguali: le distanze più significative tra due
punti erano quelle espresse in unità di tempo, non di spazio.
Anche
oggi, comunque, capita di valutare le distanze sulla base del tempo impiegato a
percorrerle (il quale dipende ovviamente dal mezzo usato). Un esperimento che
gli psicologi ripetono frequentemente per studiare la percezione che la gente ha
dell'ambiente in cui vive, consiste nel chiedere a più persone di
tracciare una «mappa mentale», ossia una rappresentazione schematica
dei percorsi abituali, nella quale vengono indicate con segmenti di retta le
distanze tra la propria abitazione e altri punti di riferimento, come ad esempio
la scuola del quartiere, il palazzo comunale, la stazione, un paese dei
dintorni, un'altra città, ecc. Queste mappe sono sempre molto diverse
l'una dall'altra (costituiscono infatti una rappresentazione tutta soggettiva
dell'ambiente) e soprattutto sono diverse da una normale carta topografica.
Rispetto a questa, in particolare, le distanze risultano deformate: quelle che
vengono normalmente percorse a piedi risultano proporzionalmente più
lunghe di quelle fatte abitualmente in autobus e queste ultime, a loro volta,
più lunghe di quelle percorse in treno.
UN MONDO IN MOVIMENTO
Quando cerchiamo di immaginare la vita
della società tradizionale, prima cioè dell'avvento del sistema
industriale, viene fatto di pensare, specialmente per le campagne, ad un mondo
chiuso entro l'orizzonte del borgo o del villaggio, con scarsi contatti con
l'esterno, e dove la mobilità della gente era assai limitata. Questa
immagine è in gran parte sbagliata. Le notizie, ad esempio, circolavano
abbondantemente, per lo meno nelle classi medio-alte. Non c'erano telegrafi
né telefoni, e i giornali erano meno diffusi di oggi, ma quelli che
sapevano scrivere dedicavano buona parte del loro tempo alla corrispondenza, e
le lettere, che recavano sempre, oltre alle comunicazioni private, le notizie
correnti, viaggiavano con una velocità non molto inferiore (e talvolta
perfino superiore) all'attuale. Per quanto riguarda poi la mobilità, non
c'erano né treni, né auto, né aerei, ma ci si muoveva
moltissimo, anche (e forse soprattutto) nelle classi più umili, che
avevano sempre viaggiato a piedi, e che in molti casi continuarono a farlo anche
quando ormai esistevano le ferrovie. è probabile che la mobilità
della popolazione, anziché aumentare, sia sensibilmente diminuita con
l'avvento della moderna società industriale.
Tanto per cominciare,
nomadi e vagabondi costituivano una percentuale consistente della popolazione e
in occasione di eventi catastrofici, come una guerra o una carestia, il loro
numero poteva crescere sensibilmente e improvvisamente: le sciagure, individuali
o collettive, spingevano alla fuga e la perdita delle consuete fonti di
sostentamento induceva a vivere di espedienti. C'era, insomma, una gran massa di
poveri e di sventurati che erano in continuo movimento da un luogo all'altro,
perennemente cacciati da ogni parte ma dovunque presenti, giacché la
società del tempo non era assolutamente in grado di assorbirli in
attività economicamente produttive o socialmente utili.
Quello del
vagabondo era una sorta di mestiere; anzi, come si diceva, era
l'«arcimestiere», e i contemporanei vi distinguevano una
quantità di «specializzazioni» diverse: funamboli, guitti e
saltimbanchi che davano spettacolo per le strade; imbonitori e ciarlatani che
vendevano paccottiglia sempre pronti a sorprendere la buona fede dei semplici;
mendicanti, pezzenti ed accattoni che vivevano d'elemosine sotto le vere o le
mentite spoglie (e in questo secondo caso si trattava propriamente di
«mariuoli») di monaci, frati, pellegrini, storpi, epilettici,
invasati, e così via; e infine ladri, bricconi e furfanti di ogni
sorta.
Indipendentemente però da questa massa di vagabondi che
viveva ai margini della legge e della società, molti mestieri
«veri», talvolta altamente apprezzati, erano ambulanti, o legati a
migrazioni periodiche: carbonai (che facevano il carbone di legna), vignaiuoli,
minatori, fonditori, fabbricanti di vetro, venditori di libri o di stampe,
merciai, ecc. C'erano lavoratori che percorrevano centinaia di chilometri nel
corso di una sola campagna di lavoro, la quale, del resto, poteva durare molti
mesi, e in qualche caso anni. Un esempio che può valere per tutti
è quello delle maestranze dette «lombarde» (in realtà
provenienti dall'intero arco delle Prealpi, dal Piemonte al Veneto), che,
organizzate in «compagnie», hanno costruito nel corso di secoli un
enorme patrimonio di edifici lungo tutta la dorsale appenninica: questi maestri
da muro partivano a Pasqua dai loro villaggi e non vi facevano ritorno che a
Natale.
La mobilità della manodopera era anche in funzione del fatto
che gran parte dei lavori, sia in campagna, sia in città, avevano
carattere stagionale (basta pensare a quelli legati al raccolto, alla vendemmia
o al taglio del bosco): i lavoratori inseguivano da una regione all'altra le
possibilità di occupazione, cercando di incastrare nel modo più
conveniente i diversi impieghi che potevano presentarsi nel corso
dell'anno.
Alle migrazioni stagionali erano particolarmente interessate le
famiglie contadine. I maschi adulti vi dedicavano i periodi dell'anno in cui la
cura dei campi, richiedendo minore impegno di lavoro, poteva essere affidata
alle mogli e ai figli più giovani, che restavano a casa. Il denaro
guadagnato nelle migrazioni era indispensabile ad integrare il prodotto della
terra che, specialmente nelle aree di agricoltura montana, povera o poverissima,
raramente bastava a coprire i pur limitatissimi bisogni della famiglia. Per i
giovani in attesa di accasarsi, poi, le migrazioni stagionali costituivano il
modo più comune di guadagnare un gruzzoletto per farsi la dote o il
corredo, per acquistare prima del matrimonio un pezzo di terra o qualche capo di
bestiame, per mettere da parte qualche soldo per i primi e più difficili
anni di vita del nuovo nucleo familiare.
CASA
Casa in latino vuol dire «abitazione
di campagna», «capanna» o «baracca» (ed è
interessante il cambiamento di significato che la parola ha subito
nell'italiano). Quello che in italiano indichiamo con «casa» ha invece
in latino due equivalenti ben distinti: aedes e domus. Il primo, da cui vengono
«edificio», «edilizia», «edicola», ecc., indica un
oggetto materiale, ossia una costruzione destinata all'abitazione o al culto
(Aedes Minervae = «il tempio di Minerva»). Il secondo da cui viene
«domicilio» ma anche «domestico», «dominio» (da
dominus = «padrone», «capofamiglia») e «donna» (da
domina), indica il luogo dove sta la famiglia o addirittura è sinonimo di
famiglia. Non solo dunque non si identifica con un particolare edificio ma anche
come indicazione di luogo ha una connotazione più affettiva che spaziale
per molti aspetti affine a «patria». Hic domus hic patria («qui
la casa qui la patria») è il grido che Virgilio (nell'Eneide)
attribuisce all'esule Enea quando sbarcando in Italia decide di
fermarvisi.
VAGABONDI
ACCATTONE
Dal latino
adcaptare,
"cercare di prendere": è sinonimo di
mendicante.
BIRBANTE
Viene da birba (che significa "uomo scioperato", ma
anche "azione fraudolenta") che a sua volta deriva dal francese
bribe, "pane
per i mendicanti": un classico esempio di associazione di povertà e
malizia.
BRICCONE
Dal latino (e italiano)
bricca,
"montagna": vuol dire montanaro, e cioè (per la solita
associazione povero-brutto-cattivo) uomo rozzo, aggressivo, infido. Da briccone,
attraverso un probabile biricone, viene birichino, che oggi significa
"ragazzo vivace, irrequieto", ma che originariamente indicava il
malfattore in generale. La stessa attenuazione ha subito la parola monello, oggi
sinonimo di birichino (nel senso di "giovane vivace e indisciplinato",
con speciale riferimento al "ragazzo di strada"), ma un tempo
equivalente di briccone (adulto).
CIARLATANO
Chi cerca di trarre vantaggio dalla
credulità altrui, per esempio spacciando per buona della paccottiglia.
Imbonitore, che è sinonimo di ciarlatano, è composto appunto di
in- e di buono: colui che fa diventar buono ciò che non lo è.
Ciarlatano è un incrocio di ciarla (chiacchera, affermazione non vera) e
di Cerretano (abitante di Cerreto, in Umbria): i Cerretani erano famosi,
appunto, come imbonitori e hanno finito col dare il nome all'intera
categoria.
FUNAMBOLO
Viene dal latino
funis, "fune", e
ambulare, "camminare": è l'equilibrista che danza sulla
corda.
FURBO
Dal francese
fourbe, nome gergale del ladro, da
fourbir, "pulire [le tasche]": chi sa trarre vantaggio da
comportamenti astuti o maliziosi. La lingua furbesca è il gergo della
malavita.
FURFANTE
Dal francese
forfaire, composto di
fors,
"fuori", e
faire, "fare": "agire fuori [della
legge]". Indica genericamente l'uomo di malaffare; in antico era sinonimo
di birbante, pezzente, straccione.
GUIDONE
Sinonimo di vagabondo e di furfante. Ha la stessa
radice (per altro incerta) di guitto, che indica genericamente chi vive in modo
misero, meschino, ma che più precisamente si riferisce agli attori
nomadi, che davano spettacolo per le strade e che per lo più erano di
bassa levatura e di scarso talento.
MARIOLO O MARIUOLO
Sinonimo di briccone o furfante. Viene
probabilmente dalla formula "far le marie", che vuol dire simulare
semplicità o devozione, o, in generale, ordire inganni e
truffe.
MENDICANTE
Come "accattone" e "pezzente"
indica chi vive di elemosina. Ha la stessa etimologia di menda, che significa
errore, difetto, magagna: il latino mendicus, oltre che "mendicante"
significava "uomo che presenta difetti fisici" (ancora una volta ci
troviamo di fronte l'associazione povero-brutto).
PELLEGRINO
Dal latino
peregrinus, "straniero":
viaggiatore, viandante, e specialmente il devoto che viaggia per visitare luoghi
santi in adempimento di un voto o comunque di un obbligo
religioso.
PEZZENTE
Dal latino
petere, "chiedere"
(attraverso un probabile petire del latino parlato) indica chi vive di elemosina
e per estensione, chi vive in condizioni di estrema
povertà.
PITOCCO
Dal greco
ptochòs, "mendicante",
è l'accattone, ma anche, in generale, chi vive un'esistenza meschina
fatta di grettezze e di spilorcerie. Pitocco è affine a taccagno,
"avaro", un termine di etimologia incerta (forse da associare
all'espressione "(at)taccato [al denaro]"), il cui equivalente
spagnolo, tacaño, indica oltre all'avaro, chi agisce con
malizia.
SALTIMBANCO
Composto di "saltare" e "in banco" (dal latino
saltare, "danzare") è l'acrobata o il ballerino che si esibisce
nelle strade su un palco improvvisato.
VIANTE O BIANTE
Dal latino
viare, "viaggiare":
viaggiatore, pellegrino.
IL PICARO
Il viaggio e l'avventura hanno sempre
ispirato la fantasia degli scrittori, e anche il vagabondaggio ha avuto i suoi
poeti. Tra tutte le figure di vagabondi e di avventurieri il picaro è
quella che ha avuto la maggiore fortuna letteraria, avendo dato origine
addirittura ad uno specifico genere letterario, il romanzo picaresco, che
annovera alcuni grandi capolavori, prodotti soprattutto in Spagna tra il
Cinquecento e il Seicento.
Picaro è un termine spagnolo di
etimologia incerta, che indica un personaggio di umile origine (spesso un
trovatello), vagabondo, briccone, preoccupato solo di riempire una pancia
eternamente vuota, che per sopravvivere fa qualunque mestiere, si piega a
incarichi servili o ricorre a furti e imbrogli. Qualche volta il picaro chiede
l'elemosina o si camuffa da pellegrino, ma non è un mendicante di
professione: è piuttosto un maestro nella difficile arte di arrangiarsi.
Spinto dalla fame, si sposta continuamente da una parte all'altra d'Europa, ma
il suo è un peregrinare senza scopo e senza senso, guidato dal caso.
Più che nello spazio il picaro viaggia attraverso le più disparate
situazioni dell'emarginazione e dello sradicamento. Talvolta, nei romanzi,
questo viaggio si conclude con il rientro del picaro nell'ordine, nella
normalità e addirittura nell'agiatezza: neanche in questo caso,
però, si tratta del giusto compenso per le privazioni sopportate,
né tanto meno di una meritata conquista, ma, ancora e sempre, di un
evento fortuito, tanto privo di senso quanto le sofferenze e le umiliazioni che
lo hanno preceduto.
Il personaggio del picaro e la letteratura picaresca
sono nati nel momento in cui l'impero spagnolo era all'apice della sua potenza e
del suo splendore e per oltre un secolo hanno accompagnato il lento ma
inarrestabile declino di quel Paese. La Spagna di questo periodo era governata
da una classe dirigente poco sensibile ai problemi dell'economia, ma soprattutto
era dissanguata dalle continue guerre a cui la costringeva il suo ruolo di
potenza egemonica in Europa.
Ai margini della società veniva
ingrossando la schiera dei poveri, dei vagabondi e dei parassiti. Il fenomeno
non era soltanto spagnolo. In Spagna, tuttavia, c'era qualcosa di più e
di specifico, una sorta di stanchezza o di rassegnazione diffusa in tutti le
classi. Queremos comer sin trabajar, «pretendiamo di mangiare senza
lavorare», scriveva sconsolato agli inizi del Seicento un economista
spagnolo analizzando vecchi e nuovi mali del suo Paese: era la morale del
picaro, che era però condivisa in larga misura dagli altri gruppi
sociali.
Il capostipite del genere picaresco è il romanzo Lazarillo
de Tormes, apparso anonimo nel 1554 e subito salutato da un enorme successo di
pubblico (tre edizioni solo nel primo anno). è l'autobiografia fittizia
di un giovane che sin dall'infanzia è costretto a combattere con la fame
e che proprio in forza della tranquilla naturalezza con cui accetta la propria
condizione di miseria morale e materiale riesce alla fine ad aver ragione delle
avversità. Lazarillo si guadagna la vita servendo personaggi poco meno
miserabili di lui: un mendicante cieco, astuto e maligno, «un'aquila nel
suo mestiere», che lo tiranneggia e gli è maestro di furfanterie e
che Lazarillo abbandona con un crudele sotterfugio non appena ritiene di aver
imparato abbastanza da lui; un prete avaro e affamato che mangia il pane dei
poveri; un nobilastro squattrinato e vanesio che vive su quello che Lazarillo
riesce a mendicare; e così via. Lazarillo tira a campare, passando da un
padrone all'altro, fino a quando riesce a sistemarsi agiatamente pigliando in
sposa una serva a cui il padrone-amante, un prete, assicura rendite e
protezioni. Nonostante l'ambientazione popolare e la finzione autobiografica, il
romanzo è certamente opera di un colto umanista, che si proponeva di
rappresentare attraverso le avventure e le disavventure di Lazarillo la faccia
cenciosa della Spagna imperiale.
Anche se è il prototipo del picaro,
Lazarillo non è mai designato con questo nome dal suo anonimo creatore.
Il termine compare invece, quasi mezzo secolo dopo, nella Vita del picaro
Guzmàn de Alfarache (conosciuta in Italia anche con il titolo La vita del
furfante), un ampio romanzo del sivigliano Mateo Alemàn (1547-1615?),
pubblicato nel 1599. Vi si narrano le peripezie di un vagabondo che attraversa
la Spagna e l'Italia facendo i mestieri più diversi, l'accattone, il
mercante, il soldato, il lenone, il baro, il marinaio, il servitore e alla fine
il galeotto. Ricco (quando riesce a ingannare qualcuno) o povero (quando
è ingannato da furfanti più bravi di lui), il picaro Guzmàn
è sempre disperatamente privo di ideali e privo anche di quella generosa
vitalità che rende estremamente simpatica la figura di Lazarillo. Il
Guzmàn de Alfarache è un romanzo cupamente pessimistico, pervaso
dal sentimento della disillusione (il desengano proprio della cultura spagnola
in questa età di crisi) e dal disprezzo per un mondo in cui, come scrive
Alemàn, il pane che ti puoi aspettare dagli altri è
invariabilmente «pane di dolore, pane di sangue, anche se ti vien dato da
tuo padre».
Al genere picaresco appartiene una delle più belle
Novelle esemplari che Miguel de Cervantes Saavedra (1547-1616),l'autore del Don
Chisciotte, pubblicò a Madrid nel 1613: Rinconete e Cortadillo, che
è la storia di due ragazzi, Pedro del Rincon, baro, e Diego Cortado,
tagliaborse, che, uniti in società, vivono di furfanterie e sono alla
fine accolti con tutti gli onori nella confraternita dei ladri di Siviglia.
Altre celebri figure di picari sono state create da Francisco de Quevedo (La
vita del pitocco, 1603), da Francisco Lopez de Ubeda (La pìcara Justina,
1605), da Vincente Espinel (Marcos de Obregòn, 1618) e, fuori della
Spagna, dal tedesco Hans Jacob Grimmelshausen (L'avventuroso Simplicius
Simplicissimus, 1669 e Vita dell'arcitruffatrice e vagabonda Coraggio, 1670,
entrambi collocati nella Germania devastata dalla guerra dei trent'anni), dal
francese Alain-René Lesage (Storia di Gil Blas di Santillana, 1715-35),
ecc.
I PELLEGRINI
Tra le ragioni che inducono gli uomini a
viaggiare una notevole importanza hanno sempre avuto quelle religiose: il
pellegrinaggio, ossia la visita di luoghi ritenuti «santi» è
una pratica diffusa in molte culture e spesso implica spostamenti su grandissime
distanze. Nel mondo musulmano, ad esempio, il pellegrinaggio è
addirittura un dovere del fedele, il quale, nei limiti delle sue
possibilità, è tenuto a visitare almeno una volta nella vita la
Mecca e Medina, le città sante legate alla predicazione di Maometto. In
Europa, dove il pellegrinaggio è sempre d'attualità (basta pensare
alle centinaia di treni speciali che ogni anno partono per Lourdes), il fenomeno
ha avuto particolare sviluppo nel Medio Evo e nei primi secoli dell'età
moderna, quando l'esistenza dell'uomo comune era intrisa di superstizioni e
l'esperienza del magico, del miracoloso, del sacro rientrava, per così
dire, nella quotidianità.
A quei tempi, comunque, la pratica del
pellegrinaggio si inseriva in una abitudine alla mobilità che, come
abbiamo visto, era assai più diffusa di quanto comunemente non si pensi e
che probabilmente era superiore a quella di oggi: la gente tendeva a spostarsi
in continuazione da una regione all'altra sotto la spinta delle motivazioni
più diverse, a cominciare naturalmente da quelle economiche, ma senza
escludere la pura e semplice insofferenza per la sedentarietà.
Tra
Medio Evo ed età moderna i cristiani avevano tre mete principali per i
loro pellegrinaggi: Gerusalemme, Roma e S. Giacomo (Santiago) di Compostella,
celebre santuario della Galizia. Se il viaggio in Terra Santa richiedeva una
traversata di mare, il pellegrinaggio a Roma o a S. Giacomo di Compostella era
fatto di lunghe marce a piedi su percorsi quasi sempre disagevoli e talvolta,
come nei tratti montani dei Pirenei, delle Alpi o degli Appennini, decisamente
pericolosi.
La gran massa di pellegrini che si spostavano da un santuario
all'altro produceva un notevole flusso di quattrini, tanto più che non
tutti erano poveri e che anche i miserabili, nel generale clima di superstizione
in cui erano immersi, erano disposti a sperperare quel po' che avevano in
offerte ai santuari. Per la maggior parte, comunque, i pellegrini vivevano delle
elemosine e dell'ospitalità che riuscivano a trovare nei Paesi che
attraversavano e non era facile distinguerli dai mendicanti, dai vagabondi,
dagli artigiani o venditori ambulanti che percorrevano le stesse strade:
ciascuno assumeva di volta in volta questo o quel ruolo e tutti assieme
formavano una folla cenciosa e pittoresca, in continuo movimento da un capo
all'altro dell'Europa alla ricerca d'una reliquia, d'un lavoro, d'un tozzo di
pane, o d'un compagno di strada da borseggiare.
In teoria c'era modo di
individuare in quella folla i pellegrini. Dal santuario il pellegrino tornava di
solito con un segno della meta raggiunta (il che oltre a essere un ricordo,
costituiva una prova nel caso che il pellegrinaggio gli fosse stato imposto come
penitenza per qualche colpa commessa). Da Gerusalemme si portava un ramo di
palma e da San Giacomo di Compostela una conchiglia raccolta sulle spiagge
vicine (ma più tardi fu possibile acquistarle direttamente davanti al
santuario). Molte stampe raffigurano appunto il pellegrino di Santiago con un
lungo bastone a cui è appesa una conchiglia (quella che in Francia viene
chiamata appunto coquille St-Jacques). Ma questi contrassegni erano a portata di
chiunque e quello del pellegrino era il travestimento preferito di bricconi e
mariuoli.
Per alleviare i disagi del viaggio e offrire un po' di ristoro ai
viandanti, lungo le principali strade di accesso ai santuari, e soprattutto
lungo quelle che portavano a Roma, in posizioni opportune (ponti, traghetti,
valichi alpini, ecc.), dove più frequente era il transito dei pellegrini
o maggiori erano i pericoli e le fatiche del cammino, sorsero dei rifugi,
ospedali (dal latino hospes = «ospite»: edificio destinato ad
accogliere gli stranieri di passaggio, pellegrini e vagabondi) o xenodochi (dal
greco xénos = «straniero», «ospite» e
déchesthai = «accogliere»). Alcuni di questi ospedali sono
divenuti celebri, come quello di Antiochia, sulla strada di Gerusalemme, o
quello di S. Cristina, sulla strada di S. Giacomo di Compostella.
I primi
ospedali ricevevano indifferentemente quanti avevano bisogno d'un rifugio:
pellegrini, poveri, malati. Solo in un secondo tempo l'ospedale è
diventato un edificio specificamente destinato al ricovero e alla cura dei
malati. Quando, nei primi secoli dell'età moderna e alla vigilia della
rivoluzione industriale, l'eccessiva mobilità della popolazione ha
cominciato ad essere avvertita dalle autorità pubbliche come un pericolo
per l'ordine pubblico e per la sicurezza sociale, l'antica istituzione
dell'ospizio per forestieri si è evoluta anche in un'altra forma di
ricovero specializzato: quella dei cosiddetti «alberghi dei poveri»
luoghi di assistenza, ma anche di reclusione (e di «rieducazione»
attraverso il lavoro) per mendicanti e vagabondi, i quali, come è facile
immaginare, cercavano di evitare in ogni modo di esservi
rinchiusi.
LE ANTICHE GUIDE DI VIAGGIO
La più antica guida di viaggio che
sia pervenuta fino a noi quella di Pausania detto il Periegeta, vissuto nel II
secolo d.C., al tempo dell'imperatore Adriano, e autore della Periegesi della
Grecia. Il genere della relazione di viaggio, periplo o periegesi che
letteralmente significa «giro della Terra»), esisteva da molto tempo
(quelle di Ecateo di Mileto che cercavano di dare un'immagine delle terre allora
conosciute risalgono al IV secolo a.C.), ma la periegesi di Pausania è la
sola in prosa dell'età classica la più simile ad una guida per il
«turista»: in dieci libri vi era descritto l'itinerario percorso
dall'autore nella Grecia continentale passando accuratamente in rassegna, di
città in città e di monumento in monumento, tutto ciò che
meritava di esser visto e che poteva giustificare un viaggio.
Pausania non
era greco e per raccogliere i materiali per la sua guida aveva dovuto percorrere
la Grecia palmo a palmo, consultando gli archivi locali, interrogando la gente,
e ascoltando le guide di professione (che già esistevano). Per lui,
cittadino romano nato in Asia Minore, la Grecia era qualcosa di simile a
ciò che sarà l'Italia per i viaggiatori nordici nell'età
moderna: un immenso museo, la terra delle meravigliose rovine che attestano
l'antica grandezza. Perciò il suo viaggio, come ogni vero viaggio, non
era soltanto nello spazio, ma anche nel tempo. Il viaggiatore intelligente
è sempre anche archeologo e storico, capace di riconoscere nel paesaggio
le tracce del passato.
Nel Medio Evo le guide tesero a distinguersi sempre
di più dalle relazioni di viaggio e a rivolgersi a un pubblico sempre
più diversificato. Le guide per i naviganti (i portolani, che servivano,
come indica la parola stessa, a riconoscere i porti verso cui si faceva rotta) e
per i mercanti continuavano, ma con sempre maggiore specializzazione, il genere
dei peripli di età classica (come il Periplo del Mare Eritreo di cui
abbiamo parlato). Sensibilmente diverse erano le guide per i pellegrini, che
costituiscono forse, e specialmente quelle per i viaggi verso Roma,
l'antecedente diretto delle moderne guide turistiche.
Tra le guide ai
luoghi detti «santi» la più antica è la Guida del
pellegrino di S. Giacomo, che risale al XII secolo. Indicava i santuari (e le
relative reliquie) che i pellegrini potevano visitare sulla strada di
Compostella e forniva consigli e informazioni sui possibili itinerari, sulle
tappe, sulle caratteristiche dei Paesi attraversati e delle genti che vi
abitavano, perfino sulla bontà delle sorgenti che si sarebbero incontrate
per via.
C'erano anche delle curiose annotazioni etnografiche. Dei
navarresi, ad esempio, si diceva che erano malvestiti (portavano abiti neri
corti al ginocchio) e che non sapevano né mangiare né bere da
persone civili: pare infatti che tutti i membri di una stessa casata, servi
compresi, usassero mangiare pescando il cibo con le mani dalla stessa marmitta e
che bevessero dallo stesso recipiente. «Quando li si guarda mangiare -
c'è scritto - sembra di vedere dei cani o dei maiali che divorano
famelici; quando li si sente parlare sembra di ascoltare dei cani che
abbaiano».
Non è detto naturalmente che questa e altre analoghe
osservazioni rispondessero a verità. è probabile piuttosto che
quella che si può considerare la prima guida turistica d'Europa abbia
inaugurato anche quel genere di immagini stereotipate delle razze e dei popoli
che ancora oggi alimentano molti pregiudizi (i Tedeschi disciplinati ma un po'
tonti; gli Italiani confusionari ma creativi; gli Svedesi alti e biondi; i
Piemontesi falsi e cortesi; i Siciliani gelosi; gli Scozzesi, gli Ebrei e i
Genovesi spilorci, e così via) e che talvolta affiorano proprio in questo
tipo di letteratura.
Dopo quasi due millenni di storia (se prendiamo come
inizio del genere la Periegesi di Pausania), la guida di viaggio resta uno
strumento insostituibile di conoscenza, di cui non sapremmo fare a meno. La
ragione di questa sua lunga fortuna sta probabilmente nel fatto che insieme alla
carta e all'enciclopedia la guida è una delle più pratiche e
agevoli forme di organizzazione del sapere geografico.
Non solo però
di organizzazione: la guida è stata ed è tuttora un ottimo
strumento di memorizzazione. Fino a tutto il Settecento, prima che la geografia
cosiddetta «scientifica» entrasse nelle aule scolastiche con il suo
descrittivismo un po' mortificante, si era soliti ripetere che l'apprendimento
della geografia, per lasciare tracce profonde nella mente dei giovani doveva,
per quanto possibile, assomigliare a un viaggio. Come insegnava, tra l'altro,
l'antica arte della memoria si riteneva, forse con qualche ragione, che fosse
più facile memorizzare le disparate informazioni attinenti alla storia,
alle arti, ai costumi, alla vita economica dei diversi Paesi del mondo seguendo
una struttura itineraria, quale è appunto quella della
guida.
O LA BORSA O LA VITA
Sino ad un'epoca non molto lontana da noi i
briganti infestavano le strade come i pirati infestavano le rotte marittime. Sui
briganti c'è una vastissima letteratura e le fiabe son piene di ladroni e
di assassini di strada. Si trattava di personaggi temibili, ma non è raro
vederli descritti nei racconti e nelle favole con simpatia e con bonario
umorismo, come in questo episodio del Gil Blas di Alain-René Lesage
(1668-1747) che narra d'un ragazzo alla sua prima impresa
brigantesca.
... Passando in vicinanza di Ponferrada, c'imboscammo
presso la strada maestra di Léon, in un luogo dove, senza essere scorti,
potevamo vedere tutti i passanti. Mentre attendevamo, che ci capitasse di far
qualche buon tiro, vedemmo un domenicano, che, contro l'uso di quei buoni padri,
cavalcava una cattivissima mula. - Grazie al cielo -, esclamò ridendo il
capitano - ecco qui un trionfo per Gil Blas. Vada a svaligiare quel frate: e
stiamo ad ammirare le sue prodezze -.
Tutti mi animarono all'impresa, ed
io: - Signori! - risposi - valorosamente ora spoglierò nudo quel
certosino e qui vi condurrò la sua mula -.
- No, no -, mi
sussurrò Rolando - che abbiamo a fare di quello scheletro?
Accontentiamoci della borsa di Sua Reverenza: questa sola desideriamo da te
-.
- Vado dunque, sotto gli occhi dei miei maestri -, dissi - a fare la mia
prima prova. Spero che mi onoreranno della loro approvazione -.
Allora
uscii dal bosco e m'incamminai verso il frate, pregando Dio che mi perdonasse la
mala azione che stavo per fare: da troppo poco tempo ero coi briganti per
commetterla senza ripugnanza. Affrontai di botto quel buon padre e, puntandogli
al petto la mia pistola, gridai:
- O la borsa o la vita! -
Egli si
fermò subito e, guardandomi fisso, senza mostrare alcuno sbigottimento,
disse:
- Tanto giovane e già dedito a così brutto mestiere?
-
- Sia pur brutto quanto volete -, risposi io - mi duole solo di non
essermivi dedicato prima d'ora -.
- Che cecità - soggiunse egli,
mostrando di dimenticare le mie prime parole, - lasciate ch'io vi mostri
l'abisso... -.
- Ah, caro padre - interruppi io recisamente - lasciate la
morale, non son venuto qua per una predica, io, ma per i denari -.
-
Denari! - esclamò egli stupefatto. - Voi avete ben cattivo concetto della
carità degli spagnoli se credete che noi abbiamo bisogno di questo per
viaggiare. Non lo sapete? Ovunque andiamo siamo lietamente accolti e tutti ci
danno da mangiare, da bere e da dormire, al solo patto che preghiamo per loro. E
neppure quando ci mettiamo per strada portiamo denari, perché confidiamo
nella divina Provvidenza -.
- Oh, no no - ripigliai io - voi non v'affidate
nella sola Provvidenza, tant'è vero che siete sempre foderati di doppie.
Andiamo, padre, finiamola. I miei colleghi che son là nel bosco son
seccati d'aspettare; buttatemi cotesta borsa o vi friggo -.
A queste
minacce il religioso cominciò a tremare. - Aspettate, - disse - contro la
forza la ragion non vale, v'appagherò -. In questo dire cavò fuori
una borsa di pelle che teneva sotto la tonaca e la lasciò cadere ai piedi
del mio cavallo. Allora gli accennai che poteva continuare il suo viaggio: non
se lo fece dire due volte dando le calcagna nella pancia della mula che
galoppando si tolse in un attimo ai miei occhi.
Sceso da cavallo, pigliata
la borsa che sentii pesante assai, e rimessomi in sella, corsi al bosco, dove
impazienti i ladri si rallegrarono con me, come se la vittoria che avevo allora
conseguito mi fosse costata molto. E appena mi diedero il tempo di mettere
piè in terra tutti mi vennero addosso per abbracciarmi
esultanti.
Dopo tante esaltazioni, che invero non meritavo, si rivolsero al
bottino da me fatto.
- Vediamo, vediamo - dicevano - ciò che il
frate teneva chiuso nella sua borsa; dev'essere ben fornita, perché
questi buoni padri non viaggiano da pitocchi -.
Intanto il capitano
slegò la borsa, l'aprì e ne cavò due o tre pugni... di
medagliette di rame con alcuni agnusdei e qualche scapolare. Alla vista di
questo furto di nuova specie, i ladri mi vollero crepare dalle
risa.
Nessuno mi lasciò immune dai suoi frizzi, ed il capitano
concluse dicendomi:
- In fede mia, Gil Blas, io ti consiglio da vero amico
di non immischiarti più coi frati, perché la sanno assai
più lunga di te. -...
VIAGGIATORI ASIATICI IN EUROPA
Non è stata solo la civiltà
occidentale a conoscere il gusto per i viaggi. Mentre gli Europei si spingevano
in quello che per loro era il «lontano Oriente», dall'Oriente altri
viaggiatori giungevano a visitare l'Europa. Alla fine del XIII secolo, grazie al
fatto che la pax mongolica garantiva i traffici e i viaggi in gran parte del
continente euroasiatico, un viaggiatore di Pechino, Rabban Sauma, visitò
l'Europa, fermandosi a Roma e Parigi. Nella seconda metà del XVI secolo e
all'inizio del successivo, due ambasciate giapponesi visitarono l'Europa accolte
con simpatia e curiosità.
Ma se si tolgono questi episodi isolati,
si può dire che nell'Estremo Oriente la pagina dei viaggi (almeno dei
viaggi verso il nostro continente) si sia aperta solo nella seconda metà
del secolo scorso. In quel momento la Cina si trovava sotto una colonizzazione
di fatto se non di diritto; il Giappone aveva appena aperto i propri porti e
cercava disperatamente di sfuggire al destino del Celeste Impero. Il viaggio in
Occidente diventò una necessità per quanti, in Cina e in Giappone,
si interrogavano sul futuro del loro Paese. Tradizionalisti e innovatori,
politici e intellettuali si recavano in Europa e in America a cercare il segreto
di una cultura e di una organizzazione che sembravano imbattibili.
A volte
questi viaggi erano il frutto di un'iniziativa privata o il risultato di sforzi
e sacrifici indicibili affrontati per poter compiere i propri studi nelle
università occidentali; a volte erano il frutto di decisioni governative.
Come esempio tipico del secondo caso, si può citare la missione
giapponese che prende il nome dal suo capo Iwakura e che a partire dal 1871
compì un lunghissimo viaggio in America e in Europa: si trattava di una
missione numerosissima, della quale faceva parte più di metà di
quello che possiamo chiamare il «governo» giapponese. Possono essere
anche ricordati, tra la fine del secolo scorso e l'inizio del nostro, i viaggi
del riformatore confuciano cinese K'ang Yu-mei. Questi fu anche in Italia; per
lui come per altri orientali il successo italiano nel raggiungimento
dell'indipendenza e dell'unità nazionale sembrava particolarmente
significativo e motivo di speranza: gli Italiani apparivano infatti assai meno
ricchi, benestanti e «bianchi» dei nordeuropei e il loro successo
politico sembrava di buon auspicio per gli infelici cinesi.
Anche per gli
Indiani l'Europa divenne una realtà da andare a conoscere solo a partire
dal XIX secolo. In precedenza, infatti, tutti i contatti tra le due aree erano
avvenuti in senso inverso, dall'Occidente verso l'India. Tra i più
illustri viaggiatori indiani in Europa è da ricordare Ram Mohan Roy
(1772-1832), il grande riformatore sociale e religioso bengalese, fondatore del
Brahmo - Samay. Sua meta, come del resto quella della maggior parte dei suoi
connazionali in viaggio per l'Europa, fu l'Inghilterra.
Chi invece
visitò un certo numero di Paesi (Italia, Francia, Inghilterra) fu, verso
gli anni '80 dell'Ottocento, il famosissimo poeta Rabindranath Tagore
(1861-1941), che viaggiava in compagnia del fratello Satyendranath. Le
impressioni e le esperienze di quel viaggio sono raccolte nel libro Lettere di
un viaggiatore in Europa. Sbarcato a Brindisi, egli attraversò tutta la
penisola, ammirandone il paesaggio, la natura e le donne; fu poi in Francia, di
cui lo affascinò specialmente Parigi con i suoi bagni turchi,
l'Esposizione Universale e lo stile dei suoi edifici; Londra, invece,
così grigia, fangosa e affollata, lo deluse molto, come pure altre zone
dell'Inghilterra.
Più o meno nello stesso periodo visitò
molte Nazioni europee anche una curiosa figura di filantropo di Bombay, B. M.
Malamari, il quale girando per Germania, Francia, Italia, Inghilterra,
trovò punti di contatto o somiglianze tra i vari aspetti della vita e dei
costumi occidentali e quelli del suo Paese, tanto che dichiarò che le
donne tedesche ricordavano le «loro sorelle Parsi» o che il popolino
napoletano parlava una specie di dialetto asiatico. Tra gli indiani che
soggiornarono in Europa ci fu anche il «Mahatma» Gandhi (1869-1948),
ma come avvenne in seguito per molti altri suoi connazionali, lo scopo del suo
viaggio era soprattutto pratico, cioè di studio: stabilitosi a Londra per
un certo periodo di tempo, infatti, vi conseguì la laurea in
giurisprudenza.
IL GUSTO DI VIAGGIARE
Che cosa dunque spinge gli uomini a
viaggiare, a spostarsi in massa o isolatamente da una regione all'altra, a
esplorare terre sconosciute e a sfidare la probabile diffidenza di gente di
diversa cultura e di diverse abitudini? In generale sembrano prevalere i motivi
di carattere economico: la ricerca di terre da mettere a coltura, di risorse da
sfruttare, di occasioni di lavoro, di opportunità commerciali. Anche il
bisogno di sottrarsi alla prigionia, alle persecuzioni, alla schiavitù,
alla fame, alla guerra è stato in ogni epoca, ed è tuttora, la
ragione dell'incessante movimento di masse innumerevoli di persone: profughi,
esuli, evasi, sconfitti di ogni sorta.
Il viaggio è in questi casi
una fuga. Se invece a motivarlo è quella volontà di dominio che si
manifesta con brutalità pressoché uguale nei conquistatori e nei
missionari, il viaggio assume la forma di una spedizione militare, di un'impresa
coloniale, di una missione civilizzatrice o di una combinazione delle tre (come
spesso è accaduto nella storia).
Non è detto che a indurre
gli uomini a viaggiare (e tanto meno a esplorare terre sconosciute) siano sempre
e soltanto cause di forza maggiore o motivazioni d'ordine pratico, come
l'interesse economico o la volontà di conquista. Il migliore dei motivi
è pur sempre il gusto di viaggiare e di esplorare, che è fatto di
tante cose e si presenta con tante facce diverse, dall'interesse scientifico al
piacere dell'avventura e del rischio, dal desiderio di fare esperienze o di
conoscere cose nuove allo spirito agonistico e sportivo, che anima, per esempio,
quella peculiare categoria di esploratori che sono gli alpinisti.
è
difficile dare una definizione del gusto di viaggiare. è più
facile dire che cosa non e. Non è, per esempio, la smania di viaggiare,
né ha nulla a che fare con la moda del viaggio. Un buon viaggiatore non
è necessariamente un collezionista di viaggi o di timbri sul
passaporto.
Forse ci può aiutare l'osservazione che a metà
Settecento faceva il filosofo inglese David Hume a proposito del gusto in
generale, per cui «la perfezione di ogni organo o facoltà consiste
nel percepire con esattezza i suoi oggetti più piccoli e nel non lasciare
sfuggire nulla alla propria conoscenza e alla propria
osservazione».
Il più fine gusto di viaggiare, allora, potrebbe
coincidere con questa capacità tutta qualitativa di guardarsi intorno,
che consente di fare grandi e significativi viaggi a due passi da casa sapendo
cogliere e apprezzare anche le piccole cose.
Una famosa operetta dello
scrittore francese Xavier de Maistre (1763-1852) si intitola Viaggio intorno
alla mia camera. Xavier de Maistre, che era ufficiale del re di Sardegna, la
compose nel 1794, mentre era agli arresti domiciliari per aver partecipato a un
duello. Quello di de Maistre è evidentemente un gioco, suggerito dal
desiderio di evadere, sia pure solo con la fantasia, dalla situazione di
costrizione in cui era venuto a trovarsi. Ma l'operetta ha la struttura di una
vera relazione di viaggio, e comincia, secondo le buone regole
dell'esplorazione, con la determinazione della latitudine e della longitudine,
per proseguire con la minuziosa descrizione dei mobili, degli arredi, dei quadri
appesi alle pareti. Ogni oggetto, per consueto che sia, sollecitato
dall'immaginazione e ingigantito dall'osservazione scrupolosa, diventa occasione
di imprevedibili scoperte: quello di de Maistre è un viaggio
nell'immobilità, un itinerario puramente mentale, percorso in
intensità piuttosto che in estensione.
In questo senso si può
dire che siano stati dei grandi viaggiatori anche personaggi noti per essere dei
sedentari, come il filosofo tedesco Immanuel Kant (1724-1804), che non si
è mai mosso dalla sua città natale, Koenigsberg (oggi Kaliningrad,
in territorio sovietico), ma era un appassionato lettore di libri di viaggio, o
come il poeta e scienziato ligure Camillo Sbarbaro (1888-1967), che
esplorò il mondo dei licheni sui muri e sui sassi di casa sua e che,
grazie anche agli scambi con botanici di tutto il mondo, riuscì a formare
preziose raccolte di quei vegetali, e, in questo modo, a «viaggiare»
in regioni lontanissime senza mai allontanarsi troppo dalla
sua.
IL TURISMO DEI CONTADINI
I contadini, ha detto Nuto Revelli, hanno
conosciuto due tipi di turismo: il «turismo di guerra» che li ha
portati a morire su tutti i fronti senza sapere il perché, e il
«turismo di lavoro», ossia l'emigrazione, temporanea o permanente, da
cui bene o male qualche cosa hanno ricavato: un po' di soldi, o almeno delle
esperienze di vita. I contadini intervistati appaiono colpiti dalla guerra assai
più che dall'emigrazione.
Sul bastimento - ha scritto Revelli
a proposito dei ricordi che gli ex-emigranti conservano della traversata
atlantica - sono io che sollecitavo un pochino il discorso, altrimenti loro ti
dicevano: - beh, 'n quindes dì suma arivà a Nuova York - e
chiuso.
E a proposito del lavoro:
... Non drammatizzavano
il lavoro, per bestiale che fosse [...] Questo lavoro ce l'avevano tanto
addosso, che non gli davano importanza. Intanto, lo avevano scelto
volontariamente. La guerra li sciocca perché è violenza; anche il
lavoro era violenza, però era una violenza accettata volontariamente,
almeno secondo loro. La guerra no. La guerra era imposta da
fuori...
Nuto Revelli è nato a Cuneo nel 1919, dove ha sempre
vissuto. Durante la seconda guerra mondiale è stato ufficiale degli
alpini in Russia e poi, dopo l'8 settembre, comandante partigiano nel Cuneese.
Ha cominciato la sua attività di scrittore e di ricercatore spinto dal
bisogno di documentare attraverso i propri diari e i propri ricordi (Mai tardi,
1946 e La guerra dei poveri, 1962) o attraverso le lettere e le testimonianze
dei soldati (La strada del davai, 1966 e Ultimo fronte, 1971) le esperienze
della ritirata di Russia e della guerra partigiana, che molti avevano interesse
a deformare o addirittura a rimuovere dalla memoria della collettività.
Durante queste esperienze Revelli aveva avuto modo di conoscere da vicino
mentalità e cultura dei contadini della sua regione, eternamente
sfruttati (come braccia da lavoro o come carne da cannone) ed eternamente
dimenticati.
Da questa familiarità con il mondo contadino sono nate
le sue opere maggiori n mondo dei vinti, 1977 e L'anello forte, 1985, in cui ha
pubblicato circa duecento storie di vita, tra le moltissime raccolte in anni di
conversazioni, interviste, incontri su e giù per le valli del Cuneese.
Più avanti vedremo come sia possibile, attivando adeguate capacità
di osservazione, compiere grandi viaggi ed emozionanti esplorazioni senza
allontanarsi da casa: l'inchiesta compiuta da Revelli sul «mondo dei
vinti» appartiene a questa categoria. Oltre che una straordinaria galleria
di personaggi, le storie di contadini da lui raccolte costituiscono
un'eccezionale documentazione sulla società rurale tradizionale nel
momento della sua dissoluzione, dagli inizi del secolo al secondo
dopoguerra.
Dall'introduzione a Il mondo dei vinti riportiamo le pagine che
Revelli ha dedicato alla mobilità contadina. Nel Cuneese l'emigrazione
era diretta in Francia (ed era prevalentemente un'emigrazione a carattere
stagionale) o in America (ed era spesso un'emigrazione definitiva, anche se
l'obbiettivo dei più era di rientrare in patria dopo aver messo insieme
un po' di soldi). Quello che stupisce, specialmente negli emigranti oltre
Oceano, è come questa povera gente si sia fatta assai poco sgomentare
dalle enormi distanze, dai disagi e dai tempi lunghi dei trasferimenti, dalla
diversità degli ambienti che ha dovuto affrontare: per loro, nonostante
tutto, l'effetto di spaesamento è stato minimo. L'America a momenti
è come un altro Piemonte - dice uno degli emigranti intervistati da
Revelli. è lo stesso che a un cow-boy che gli si rivolge in dialetto
piemontese risponde: sun pà piemunteis, sun 'd Saluse -.
...
Il tema «lavoro» è scritto sul viso cotto del contadino,
è scritto sulle mani larghe, di cuoio. Il contadino che lavorava da un
sole all'altro non moriva di fame, ma non alzava la testa.
L'emigrazione
era l'unica via di scampo, l'unica strada della speranza, l'unica scelta di
civiltà di cui il contadino povero disponeva. Le montagne che ci separano
dalla Francia era come se non esistessero.
Emigravano i contadini della
pianura, della montagna, delle Langhe. - Chi non emigrava non era gente -
sentenzia Michele Giuseppe Luchese, di Roccasparvera. Ogni autunno, dopo il
raccolto delle castagne, le valli erano percorse dalle lunghe file degli
emigranti stagionali in cammino verso il confine, verso la Francia. Dall'alta
Valle Varaita emigravano le famiglie al completo: si portavano al seguito i
neonati, nelle culle, come in un trasloco da una casa all'altra.
La Francia
ci sopravanzava di almeno cinquant'anni in fatto di progresso, di benessere: in
Francia l'industria era florida e l'agricoltura avanzata. Nel 1910 un contadino
di Barbaresco, da Tolone scrive al padre, e gli descrive la macchina favolosa
che realizza gli scassi: «Qui nelle vigne ci sono due grossi argani che
tirano un grosso aratro, nen sempre cavè, cavè [non sempre
zappare, zappare], gli scassi vengono fatti a macchina, così in pochi
giorni la vigna è pronta per l'impianto». Subito il padre risponde
al figlio, gli dice: «Io qui non ne parlo con nessuno della macchina che
fabbrica gli scassi. E tu quando farai ritorno a Barbaresco, cerca poi di non
dire a nessuno quanto hai visto. La gente non ti crederebbe, e diventeremmo solo
la favola del paese». Nelle campagne del Nizzardo i padroni invitano i
nostri contadini a non raccontare le storie delle masche: - Sono soltanto
stupidaggini, noi non vogliamo che spaventiate i nostri figli -.
La Francia
ha fame di mano d'opera capace e rassegnata, ha fame di mano d'opera artigiana,
operaia, contadina. Padre e figlio che emigrano in Francia con un mestiere
artigiano, con un mestiere da sellaio o da bottaio, in cinque mesi di lavoro e
di economie incredibili riescono a risparmiare quanto occorre per acquistare una
vacca. Le paghe contadine e operaie sono modeste. Niente libretti di lavoro,
niente assicurazioni sociali. Nelle miniere chi muore, muore. Ma il contrasto
tra la miseria del Piemonte e il benessere della Francia invita a ben sperare.
Non poca dell'emigrazione stagionale tende a trasformarsi in permanente, sono
migliaia i cuneesi che scelgono la Francia come unica patria.
Emigrano
anche i bambini, scappano da casa tanto hanno nel sangue il discorso del lavoro,
dei soldi, della Francia. Bertu del Düca ha dodici anni quando scappa da
casa e raggiunge la «perriera» [cava di gesso] di Nizza. Lavora alcuni
mesi, e poi fa ritorno a San Michele di Cervasca. Come si avvicina al cortile di
casa, come intravvede la nonna minacciosa che lo attende al varco, Bertu le
muove incontro ostentando sul palmo della mano una moneta, tutti i suoi
risparmi. - Beh! L'as vagnà 'd pì ti che 'n preve - [Beh! Hai
guadagnato più tu che un prete], gli dice la nonna, che intasca le poche
lire e lo perdona. - Se volevamo vedere come erano fatti i soldi dovevamo andare
in Francia - dicono tutti i miei testimoni.
Anche il flusso verso le
Americhe era notevole. Il contadino che emigrava in Argentina si ambientava
facilmente: riusciva a capire «da lingua della Castiglia», riusciva a
comunicare, a farsi intendere. Il contadino che emigrava negli Stati Uniti
incontrava invece delle difficoltà enormi.
Bastava un attimo di
disperazione, di coraggio, di ribellione, perché nell'animo del contadino
scattasse la molla dell'America. Bastava una disgrazia, una tempesta, e la
risposta era immediata. Il contadino non analizzava preventivamente le
difficoltà che avrebbe incontrato. Sapeva che nel Nuovo Messico o in
California il lavoro non mancava, era il mito dell'America che lo spingeva a
rischiare, ad andare allo sbaraglio. «L'agenzia» gli risolveva tutti i
problemi burocratici, lo assisteva fino al momento dell'imbarco. Poi il viaggio
che non finiva più, le bigatere sotto il livello dell'acqua, il rancio
servito nei gavettini come ai soldati. A Napoli l'incontro con i
«terroni», con gli emigranti del meridione, - gente ancora più
povera di noi, gente che mangiava tanto e sempre, e poi vomitava -. A Palermo
l'incontro con gli emigranti algerini, marocchini, turchi, e la scoperta che -
al mondo siamo tutti uguali, tutti di carne e ossa, i cristiani e i non
cristiani, i neri e i bianchi -. Era dai sola dell'Albese che il nostro
emigrante doveva guardarsi: i sola si pagavano le spese del viaggio cercando i
foi da plè, i patiti del gioco d'azzardo.
A New York la visita
medica, i «non idonei» segnati sulla schiena con il gesso, - con un
marchio come le pecore -. Attorno al porto era tutto un fiorire di trattorie
piemontesi, sarde, venete, calabresi, siciliane, così l'emigrante trovava
subito la trattoria giusta, dove i padroni lo accoglievano parlandogli in
piemontese o in patois, dove magari gli offrivano un piatto di polenta e
coniglio. Era in questa trattoria amica che arrivavano le offerte di lavoro:
telefonavano da lontano, dalle miniere del Washington o dell'Oklahoma, e
cercavano un po' di gente in gamba, una trentina di Piemontesi. L'emigrante non
ci pensava su due volte, rinunciava subito al Nuovo Messico o alla California,
accettava al volo la nuova offerta di lavoro. L'indomani era già nella
stazione ferroviaria, tra la selva dei binari, come un sordomuto. Si metteva nel
nastro del cappello il biglietto del treno, così i ferrovieri
«leggevano» e gli indicavano il binario giusto. Tre giorni e tre notti
di viaggio, poi l'arrivo in un villaggio squallido, di baracche. Poche ore per
ambientarsi, l'incontro con il paesano di Valdieri o di Rittana, la riconferma
che - il mondo è proprio piccolo -. Poi la vita sul fondo di una miniera,
guadagnando una paga favolosa, tre dollari tutti i giorni dell'anno. Niente
«libretti di lavoro», niente «assicurazioni sociali». -
Anche negli Stati Uniti chi muore, muore, e il lavoro continua -.
Saranno
le guerre a tagliare le strade dell'emigrazione, la «piccola guerra»
di Libia prima, la «grande guerra» poi...
L'AMERICA A MOMENTI È COME UN ALTRO PIEMONTE
Giovanni Giacomo Ruatta, nato alla frazione
Rio Torto di Verzuolo, classe 1885, contadino.
... Eravamo nove di
famiglia, io, sei sorelle e due fratelli, orfani di padre e madre. Vivevamo
basta che sia, in un ciabutinot di dodici giornate, eppure tutti in salute, una
salute di ferro. Mangiavamo.
Nel 1903 mio fratello Sandro, era della classe
1881, torna dalla Francia dopo due anni di miniera e mi fa: - 'Nduma 'n Merica,
mi l'hei i sold per 'I viage e tüt - [- Andiamo in America, io ho i soldi
per il viaggio e tutto ciò che occorre -]. Sandro suonava l'armonica, sul
bastimento avremmo anche avuto un po' di allegria, sei o sette giovani di Piasco
e Villanovetta decidono di unirsi a noi, la società (l'agenzia della
società di navigazione) di Saluzzo ci organizza il viaggio,
centocinquanta lire la spesa del biglietto a testa. Il più giovane ero
io, con diciassette anni. Abbiamo pensato: - Della campagna siamo pratici
abbastanza, poi se c'è da andare nelle mine andiamo nelle mine, a casa
c'è poco da guadagnare, laggiù il vitto è a buon prezzo, e
poi la paga è superiore -.
Siamo partiti in silenzio, vicino a
Natale. Ci siamo imbarcati a Genova. Sul bastimento spagnolo «Manuel
Calvo» eravamo tutti emigranti, trecento e passa. A Napoli e a Palermo ne
abbiamo caricati altri, solo uomini, della bassa Italia. Mangiare si mangiava.
Ogni squadra andava a prendere la minestra alla cucina con un grosso catino, poi
veniva distribuita 'n tei piatlin 'd tola [nei piattini di
latta].
Barcellona, Malaga, Cadice, bei posti. Poi diretti a New York.
Prima dello sbarco la visita medica: mi hanno guardato in faccia, fatto buono, e
via. Nevicava, quarantaquattro gradi sotto zero, noi non pativamo niente, noi
avevamo solo un giaccone alla bella meglio, gli altri tutti
incappottati.
In un albergo vicino al porto i padroni erano Italiani,
Piemontesi anche, e ci dicono subito: - Oggi facciamo la polenta e coniglio uso
Piemonte -. Intanto dalle miniere lontane duemila chilometri telefonano se
c'è qualcuno che vuole andare nelle mine. Noi eravamo destinati per
andare diretti in California, ma la proposta del padrone dell'albergo ci sembra
conveniente, ci dice: - Hanno telefonato dalle miniere del Colorado: se andate
lì lavorate sei mesi con una bella paga, poi vi pagano il viaggio per
andare in California gratis -.
Due giorni e mezzo di treno e arriviamo a
Starville, l'America a momenti è come un altro Piemonte, ci sono tutte le
lingue ma riusciamo a farci capire. Prendiamo alloggio in una casa della
compagnia delle miniere, noi nove assieme, ci facciamo noi il mangiare. Una sera
un albergatore sente Sandro che suona l'armonica e ci vuole tutti nel suo
locale: è un albergo di Piemontesi, e il padrone offre a Sandro di
suonare tutte le sere guadagnando una buona paga. Nel lavoro di miniera
c'è un po' di pericolo, ogni tanto scoppia il gas, sbatte lontani i
travi. Allora dico a Sandro: - è meglio che tu non venga più nella
mina, tu hai solo da farci da mangiare, e poi vai a suonare all'albergo e
guadagni la tua buona paga -. Nell'albergo dove suonava c'erano sempre centinaia
di operai, si ballava tutte le sere, c'erano Italiani, Francesi, Tedeschi,
Russi, sono bravi i Russi, brava gente e lavoratori, andavamo
d'accordo.
Lavoravamo in una mina da carbone, sette otto ore al giorno:
c'era un po' di pericolo ma armavamo sempre, toccavamo col picco per capire.
Guadagnavamo sette otto dollari al giorno, tanti in proporzione dell'Italia che
si guadagnavano due lire al giorno. Il mangiare costava poco, con uno scudo al
giorno, con cinque lire, con un dollaro, si mangiava a volontà.
Sei
mesi, poi comincia ad andare male, comincia lo sciopero, tutte le miniere ferme
perché gli operai volevano le paghe differenti. Noi eravamo per gli
scioperi. L'Unione, una specie di sindacato, dava da mangiare gratis a chi
scioperava, una minestra basta che sia, roba che 'ndasìa pà vaire
[roba scadente, cattiva]. Allora siamo andati con i cow-boy, a un mestiere un
po' selvaggio, a governare le bestie, a mungere. Ci davano da mangiare.
Poi
abbiamo sentito che in California c'erano dei Piemontesi, gente dei nostri. Ci
siamo spostati a San Francisco, abbiamo trovato lavoro con i muratori che
costruivano fabbricati per una grossa ditta americana, palazzi di sessanta piani
di altezza. Un mattino, nel 1905, sono lì che mi sto alzando, sento un
rumore, vu vu vu, mi dico: - Scommetto che è il terremoto -. L'è
bütase a supaté [Si è messo a tremare], tutti i palazzi erano
di legno, in un momento tutta la città prende fuoco, la terra si era
abbassata, le rotaie della ferrovia erano per aria. Tanti i morti. Siamo
scappati un po' fuori in montagna a vivere sotto le tende. Poi siamo andati nel
Washington, a lavorare in una galleria per treni, con la compagnia Gret Nord.
C'erano dei mille operai. A picco e pala guadagnavamo sei sette dollari al
giorno, la compagnia si tratteneva un dollaro per la mensa. Sandro di giorno
lavorava nella galleria con noi, di notte andava a suonare l'armonica negli
alberghi: dava lezione di armonica, cominciava a commerciare, a far arrivare
armoniche dall'Italia.
Dopo un anno il lavoro alla galleria è
finito, troviamo una buona paga nelle grandi boschine attorno a Pod Costa, a
disboscare. Buttavamo giù grosse piante di legno rosso radut, un legno
dolce che con gli anni e l'umidità diventava più duro del cemento,
serviva a costruire palazzi. Eravamo dei mille operai.
Due anni e passa,
poi decido di girare un po' l'America a piedi seguendo il destino, da solo
soletto con un fagotto sulle spalle. Dove trovo lavoro mi fermo, alla buona
ventura. A Gilroj, vicino a San Giuseppe di California, in un'osteria toscana,
incontro un cow-boy che mi dice: - Nt' vede smii che sii piemunteis - [- Nel
vederti sembra che tu sia piemontese -]. E io: - No sun pà piemunteis,
sun 'd Salüse - [- No, non sono piemontese, sono di Saluzzo -]. Mi offre un
lavoro mi accompagna a Monte Madonna in una delle grosse cascine del miliardario
Miller Nloc, un grande cow-boy, del quale era fattore. L'indomani, su un bel
cavallo rosso e sella bianca arriva Miller Nloc, un uomo di settant'anni, 'n
piota. Miller Nloc mi racconta i suoi passaggi, di quando girava in lungo e in
largo per le praterie con sei uomini armati di pistole. Come incontrava un
villaggio cercava l'osteria: primo saluto, un colpo di pistola, ben, nel
pavimento di legno del salone. Poi chiedeva: - Ho fatto qualche danno? - E
offriva da bere a tutti...
IL "GRAND TOUR" E IL VIAGGIO ROMANTICO
Il grand tour è il giro delle
principali città d'Europa (e soprattutto d'Italia) che nei primi secoli
dell'età moderna i giovani delle classi ricche e colte, specialmente dei
Paesi del Nord, intraprendevano a conclusione dei loro studi. Erano sempre
confortevolmente equipaggiati e guidati da un istitutore. I più facoltosi
si facevano accompagnare anche dal medico e magari dal cuoco. Talvolta il loro
seguito era completato da un segretario o addirittura da un pittore, incaricato
di fissare col disegno i paesaggi, le città, le opere d'arte e insomma le
cose più interessanti osservate nel viaggio.
Il grand tour era una
vera e propria istituzione educativa, dotata di regole precise relative sia agli
itinerari (ispirati a interessi prevalentemente storici ed artistici) sia ai
modi di viaggiare. Gli itinerari, che si erano venuti gradualmente precisando,
comprendevano in genere Francia, Paesi Bassi, Germania e Italia. L'Italia
costituiva una tappa obbligata: come grande deposito di storia, invitava il
viaggiatore alla riflessione politica, mentre per la straordinaria
concentrazione di opere d'arte offriva un'esperienza di valore ineguagliabile
per l'affinamento del gusto.
Tra quanti contribuirono a fissare le regole
del grand tour vi fu anche, all'inizio del Seicento, il filosofo inglese
Francesco Bacone. Bacone non solo consigliava il viaggio in Europa per il suo
generico valore formativo, ma raccomandava di assumerlo come occasione per
attente e approfondite osservazioni nel quadro di un preciso metodo di vita
intellettuale. A questo scopo era richiesta però un'accurata preparazione
del viaggio da parte del giovane e del suo istitutore, una buona conoscenza
delle lingue, buone letture, e soprattutto la scrupolosa tenuta di un
diario.
Oltre che un itinerario convenzionale, il grand tour seguiva anche
un calendario abbastanza rigoroso, organizzato in funzione delle stagioni
più opportune per i trasferimenti, ma soprattutto delle feste e delle
occasioni mondane. Il Natale, per esempio, era di rigore passarlo a Roma, mentre
il Carnevale andava seguito a Venezia. In ogni città era d'obbligo
(procurandosi le necessarie lettere di presentazione) rendere omaggio alle
personalità più interessanti della politica, delle scienze, delle
arti e della letteratura, farsi accogliere nei salotti alla moda, seguire i
principali avvenimenti della stagione teatrale. è facile capire come il
grand tour potesse durare anche due o tre anni: tre anni, anzi, era considerata
la durata ottimale per compiere senza affanno le dovute esperienze.
Per
quanto riguarda l'Italia ancora per buona parte del Settecento il limite
meridionale toccato dal grand tour restò Napoli, considerata un po' la
città di confine tra il mondo civilizzato e quello misterioso e
scoraggiante dei briganti e delle «primitive» popolazioni meridionali.
La cultura romantica cambiò la mentalità del viaggiatore. Nacque
il gusto del primitivo e dell'avventura e con esso una certa predilezione per il
viaggio meno confortevole, per esempio per il pedestrian tour (viaggio a piedi)
come quello che all'inizio dell'Ottocento compì il tedesco Johann Seume,
che con pochissimo bagaglio (ma con una sacca di libri) in sei mesi percorse a
piedi tutta la Penisola, Sicilia compresa.
All'inizio il grand tour aveva
un significato squisitamente educativo, come momento terminale del curriculum
giovanile delle classi dominanti. Più tardi, invece, all'approssimarsi
dell'Ottocento e con l'affermarsi di una sensibilità di tipo romantico,
il desiderio di evasione finì col prevalere sul bisogno di istruzione. Il
grand tour diventò per alcuni una fuga dall'avanzante società
delle macchine (e dei fumi e dei rumori) alla riscoperta di paesaggi suggestivi
e di ambienti ancora non contaminati dall'infezione industriale; per altri, e
cioè per i giovani signori del Nord, diventò un modo di sottrarsi
alla malinconia dei lunghi inverni della patria nel tentativo di recuperare
salute e gusto di vivere sotto i cieli azzurri del Mediterraneo.
Il
rappresentante forse più emblematico del viaggiatore romantico è
un personaggio creato da lord Byron (1788-1824) a propria immagine: Aroldo,
protagonista del poema Childe Harold's Pilgrimage (Pellegrinaggio di Aroldo il
Cavaliere, pubblicato tra il 1812 e il 1818), un giovane aristocratico
misantropo e ribelle, che, dopo un'esistenza condotta nell'ozio e nel vizio,
dà inizio ad un inquieto vagabondare in Spagna, Portogallo, Italia,
Grecia, lungo il Reno e sulle Alpi: i luoghi classici del viaggio romantico (di
cui Byron fornisce una sorta di guida sentimentale, ad uso specialmente del
pubblico femminile). Aroldo cerca ovunque la solitudine, predilige gli aspri
spettacoli della Natura, i paesaggi «sublimi» (un termine assai amato
dagli scrittori romantici):
... Ove sorgevano i monti, ivi erano
amici per lui; ove gonfiava l'Oceano là era il suo focolare; ove si
stendeva un cielo azzurro ed un ardente clima, egli aveva la smania e il potere
di vagare; il deserto, la foresta, la caverna, la schiuma dei marosi, erano
compagni per lui; essi parlavano una comune lingua, più chiara di quella
dei libri della sua patria, che egli spesso soleva abbandonare per le pagine
della Natura...
è in questa fase tarda che si collocano le
premesse del turismo moderno («turismo» è una parola ancora
più recente del fenomeno che designa: viene dal francese tour =
«giro» attraverso il verbo inglese to tour = «viaggiare», da
cui, tra l'altro, Touring Club). Sulla scia della valorizzazione romantica del
paesaggio pittoresco o sublime, dei climi dolci e dei cieli puliti del
Mediterraneo, il turismo ha promosso la nascita e lo sviluppo di una serie di
nuove stazioni di soggiorno, di villeggiatura e di cura, specialmente nelle
Riviere francese e italiana e nell'arco alpino, che fin dal primo Ottocento si
sono venute affiancando, negli itinerari dei viaggiatori, alle città
d'arte e di storia, tradizionali tappe del vecchio grand tour.
HOBOS
Nel 1896 venne inaugurata la prima linea
ferroviaria transcontinentale degli Stati Uniti, la Central Pacific Railway: a
quel tempo, la rete ferroviaria americana poteva vantare complessivamente
più di 30.000 miglia di binari impiantati e nel decennio tra il 1880 e il
1890, nel momento del suo maggiore incremento, ne vennero aggiunte più di
70.000. Questa rapida espansione del sistema di trasporto ferroviario era
sintomo del grande sviluppo dell'industria, soprattutto di quella estrattiva e
di quella metallurgica. La possibilità di utilizzare una vasta rete di
comunicazioni provocò, a sua volta, un ampliamento dei territori
sfruttabili, in particolare di quegli Stati dell'interno fino a quel momento
abitati solamente dagli indiani.
Lo sviluppo industriale era in così
rapida accelerazione che l'America poteva permettersi di ignorare il sempre
più evidente disagio di quelle fasce sociali che ne erano rimaste escluse
o che ne erano le vittime. Ma proprio le strade ferrate divennero il simbolo e
il rifugio, oltre che il mezzo di trasporto, di un vasto gruppo di lavoratori e
di vagabondi senza occupazione, che avevano scelto o si erano trovati nelle
condizioni di non avere né una fissa dimora né un lavoro stabile:
Gli hobos, come vennero chiamati già intorno al 1890, con una parola di
origine imprecisata, forse derivante, per contrazione, da hoe-boys
(«zappatori», «braccianti»: hoe, in inglese, è la
zappa).
Gli hobos avevano cominciato a spostarsi da un punto all'altro
degli Stati Uniti precisamente per la costruzione delle ferrovie. A partire
dall'ultimo decennio del XIX secolo e almeno fino all'introduzione della
mietitrebbiatrice, molti hobos si mescolarono alle schiere dei braccianti
stagionali liberi, lungo la cosiddetta «fascia dell'orzo» negli Stati
del Middle West.
Le due componenti psicologiche caratteristiche degli
hobos, la volontà di rimanere indipendenti e quindi la capacità di
affrontare la sopravvivenza con le sole proprie forze, e la libertà di
continui spostamenti attraverso grandi spazi, potevano contare, nella tradizione
culturale americana, su importanti precedenti. Walt Whitman (1819-1892), per
esempio, uno dei maggiori poeti americani, aveva scritto intorno alla
metà del secolo questi versi (raccolti in Foglie d'erba,
1855):
... Volto verso il Golfo del Messico, o Mannahatta, o il
Tennesse, o l'estremo Nord o l'entroterra, Uomo di fiumi, o di boschi, o di
campi, in ciascuno di questi Stati, o in quelli della costa, o dei laghi o nel
Canada.
Possa io, ovunque viva la mia vita, essere equilibrato in ogni
contingenza.
E fare fronte a notte, bufere, fame, ridicolo, accidenti,
sconfitte, come sanno le piante e gli animali...
Un hobo di eccezione
fu, negli anni giovanili, un altro grande scrittore americano, Jack London,
arrivato alla letteratura dopo aver fatto innumerevoli mestieri, non sempre
legali e quasi mai rispettabili. Dalla sua esperienza di hobo London trasse
ispirazione per il romanzo La Strada, pubblicato nel 1907:
... Io
divenni vagabondo - be', a causa del tipo di vita che era dentro di me, della
smania di andare in giro che avevo nel sangue e non mi dava pace. [...] Me ne
andai per «La Strada» perché non riuscivo a starne lontano
[...] perché ero fatto in modo tale che non ce la facevo a lavorare tutta
la vita sempre «allo stesso turno»; - be', perché era
più facile farlo che non farlo.
Nella Hobo Land la vita offre un
volto proteiforme - è una fantasmagoria sempre mutevole, dove avviene
l'impossibile e ad ogni svolta della strada l'imprevedibile balza fuori dai
cespugli. Il vagabondo non sa mai che cosa capiterà l'istante dopo; vive
quindi solo nel momento presente. Ha capito la futilità dello sforzarsi
per qualche scopo, e conosce il piacere del lasciarsi portare dai capricci del
Caso...
Il treno, ne La Strada, è davvero l'emblema della
condizione hobo:
... Da Ovest venne il fischio di una locomotiva.
Arrivava nella nostra direzione, diretta ad est. Tra le nostre file ci fu un
gran daffare per i preparativi. Lanciando fischi ripetuti e furiosi, il treno
arrivò rombando alla massima velocità. Un'altra locomotiva
fischiò, e passò un altro treno a tutta velocità, e poi un
altro e un altro ancora, un treno dopo l'altro, un treno dopo
l'altro...
Una parte dell'eredità degli hobos è stata
raccolta negli Stati Uniti ancora negli anni Sessanta, anche attraverso la
cultura musicale, quella di Woody Guthrie (1912-1967) e dei cantanti folk,
recuperata, tra gli altri, da Bob Dylan (nome d'arte di Robert Zimmermann, nato
a Duluth, nel Minnesota, nel 1941) che, nel 1962, dedicava una canzone proprio a
«Woody»:
sono quaggiù all'aperto
mille miglia
da casa
cammino per una strada
che altri uomini hanno
percorso
vedo un mondo nuovo
di genti e di cose
ascolto poveri e
contadini
principi e re
[...]
me ne vado domani
ma potrei
partire oggi
da qualche parte lungo la strada
un giorno
proprio
l'ultima cosa
che vorrei fare
è poter dire
ho fatto anche
io molta strada...
Quella degli anni Sessanta fu insomma una nuova
versione del viaggio come sradicamento, in opposizione ad un sistema sociale e
ad una cultura che propone la stabilità e l'ordine come
valori.
VAGABONDO
Il tema del vagabondaggio come affermazione
di libertà, ribellione contro l'ottusità e il conformismo dei
beati possidentes, occasione per esperienze nuove e più intense (la
riscoperta della natura, per esempio, o quella della solidarietà con
occasionali compagni di viaggio), rientra nella più schietta mitologia
americana. Tra gli anni Cinquanta e Settanta questo tema ha percorso di nuovo
molte manifestazioni della cultura americana sull'onda soprattutto della
protesta giovanile, espressa prima dagli intellettuali della cosiddetta beat
generation, e poi, su un terreno più propriamente politico dal movimento
per i diritti civili (contro la discriminazione razziale all'interno del Paese)
e per la pace (contro l'aggressione degli Stati Uniti al Vietnam).
Sono
stati soprattutto i letterati della beat generation (gli scrittori William
Burroughs e Jack Kerouac, i poeti Allen Ginsberg, Lawrence Ferlinghetti e
Gregory Corso, ecc.) a recuperare il mito libertario e protestatario del
viaggio. La polemica beat era particolarmente diretta contro quella sorta di
semifascismo spesso presente nella società americana, sotto forma di
ottuso o feroce conformismo, e che in quegli anni, con l'esperienza aberrante
del maccartismo, era entrato in una fase di insolita virulenza. Il disprezzo
espresso dalla beat generation per i valori ufficiali della società
americana si può sinteticamente enunciare con la battuta di Gregory
Corso: «io non sono contro la società, ne sono fuori». Il
vagabondaggio esprimeva nella maniera migliore questo del «mettersi
fuori» (più che contro) la società.
Uno dei manifesti
dello stile beat (stile letterario e di vita) è stato il romanzo di Jack
Kerouac, Sulla strada (On the road), pubblicato nel 1957: è la storia del
lungo vagabondare di un ragazzo dell'Ovest, uscito dal riformatorio e con il
nomadismo nel sangue, e di un suo amico di New York, con aspirazioni letterarie,
che è affascinato dall'irrequietezza del compagno ma alla fine rinuncia a
seguirlo. Jack Kerouac (1922-1969), che è stato tra l'altro l'inventore
del termine beat, era un ammiratore di London e come London aveva praticato per
anni una vita nomade facendo tutti i mestieri (tra cui, emblematici, quello di
marinaio e di ferroviere).
Nel cinema il capostipite di una lunga serie di
opere destinate particolarmente ai giovani e centrate sul tema del nomadismo
è stato il film di Dennis Hopper Easy Rider del 1969, che ebbe uno
straordinario successo. Dennis Hopper, che era attore cinematografico, e che con
questo film affrontava per la prima volta la regia, nel 1969 aveva appena 33
anni: il suo, dunque, era un vero e proprio youth movie, ossia un film non solo
fatto per i giovani, ma fatto da un giovane.
IL CITTADINO E IL MONTANARO
I primi stranieri che la curiosità
aveva attirato a Chamonix dovevano guardare questa valle alpina come un rifugio
di briganti. Vi andarono infatti armati fino ai denti e accompagnati da una
quantità di domestici anch'essi armati. Non osarono entrare in nessuna
casa del paese e si accamparono sotto le tende che avevano portato con sé
e tennero fuochi accesi e sentinelle di guardia tutta la notte. La testimonianza
non è sospetta: è di un cittadino, il ginevrino
Horace-Bénédict de Saussure (1740-1799), lo scienziato che
promosse nel 1787 la prima ascensione al Monte Bianco.
Questo strano
incontro era avvenuto solo qualche decennio prima, ad opera dei soliti inglesi
che avevano aperto ai viaggiatori la via al Monte Bianco. Nessuno notò
né allora né dopo che la stessa via era percorsa tutti gli anni
dagli abitanti di Chamonix che, come quelli delle altre valli alpine, lasciavano
periodicamente le loro case per andare a lavorare a Parigi o in Germania.
Proprio per questa abitudine migratoria gli abitanti di Chamonix accolsero i
primi alpinisti con un atteggiamento molto diverso da quello che costoro, del
tutto ignari dell'ambiente della montagna, avevano avuto nei loro confronti.
Quegli alpinisti appartenevano a un mondo, quello della città, che i
montanari conoscevano assai bene perché vi avevano a che fare
continuamente per ragioni economiche, fiscali e militari. A questa conoscenza
non superficiale, e alla gelosa difesa delle tradizionali autonomie e
libertà montanare, si deve la diffidenza e la selvatica rudezza con la
quale essi trattavano viaggiatori e alpinisti e che questi non mancavano di
enfatizzare nei loro diari e nelle loro relazioni. Da un punto di vista
culturale nell'incontro-scontro tra montanari e cittadini sono dunque questi
ultimi che sfigurano: le loro categorie mentali non si dimostrano altrettanto
elastiche di quelle dei montanari, che ai fucili e alle paure dei primi
alpinisti oppongono l'ironia e l'abitudine di fare la caricatura dei
viaggiatori.
De Saussure (autore tra l'altro dei quattro volumi di Voyages
dans les Alpes, «Viaggi nelle Alpi», pubblicati tra il 1779 e il 1796)
e pochi altri scienziati illuminati hanno aperto la via alla comprensione del
mondo e della società alpina, ma questa conoscenza rimane sempre
piuttosto precaria, anche per effetto di un'antica tendenza dei cittadini alla
colonizzazione della montagna, che le forze locali non sono state in grado di
contrastare efficacemente e che si è espressa innanzitutto in termini
economici: per lungo tempo la montagna è stata vista come riserva di
manodopera e di altre risorse a buon mercato (basta pensare al legname da
costruzione o all'acqua per le centrali idroelettriche) a beneficio
dell'industria delle città.
Lo stesso sviluppo economico,
concentrato nelle città, ha finito con il modificare il rapporto fra il
montanaro e il cittadino, ma la logica coloniale di quest'ultimo non ha mai
cessato di operare, anzi ha subito un'accentuazione. Contro lo smog delle aree
industriali, la montagna è diventata in primo luogo una riserva d'aria
buona, il luogo classico della vacanza sportiva. Flussi sempre maggiori di
turisti si riversano sulla montagna sia d'estate sia d'inverno. Anche la neve,
che un tempo era un ostacolo per il villeggiante e l'escursionista e che ha
rappresentato fino a qualche decennio fa un diaframma efficace tra il mondo
della montagna e quello urbano, è entrata nel gioco non appena lo sci
è diventato uno sport di massa. C'è stato un rivolgimento nei
valori ambientali della montagna: un clima particolarmente nevoso, poiché
limitava le attività agricole e pastorali, rappresentava in passato uno
svantaggio, mentre oggi rappresenta un pregio di cui le comunità montane,
sempre più coinvolte dalla pratica degli sport invernali, fanno
tesoro.
Con queste forme di turismo che modellano il territorio e il
paesaggio con la fitta ragnatela di infrastrutture necessarie alla pratica
turistica e sportiva di massa (strade e autostrade, alberghi, ville e condomini,
funivie e impianti di risalita che raggiungono anche le quote più elevate
dei ghiacciai) usciamo dall'orizzonte del viaggio. Il viaggio comporta infatti
il piacere di scoprire nuove mete, nuovi punti di vista, nuovi modi di vedere;
comporta il gusto di leggere nel paesaggio i segni di una particolare cultura,
di ritrovarvi le tracce di un passato. Ma ben di rado lo sciatore di oggi si
accorge che intorno a lui c'è un paesaggio che non è fatto solo di
impianti di risalita o di posti di ristoro e che le montagne che lo circondano
hanno un nome e una storia e infine che sulla neve e nel bosco si possono
leggere altri segni e tracce oltre a quelli lasciati dagli sciatori.
Anche
la funzione della montagna come meta di un'impresa sportiva è cambiato:
oggi la montagna più che salirla, si scende. Ciò che l'abitante
della città sembra gradire di più è il piacere della glisse
(come dicono i francesi con una parola nuova che non ha ancora il suo
corrispondente italiano), cioè dello scivolare sulla neve possibilmente
vergine: «firmare» un pendio con la propria «serpentina».
è un atteggiamento psicologico che contrariamente alla grande letteratura
sulla montagna (a partire dalla Montagna incantata di Thomas Mann) privilegia la
discesa sull'ascesa e non riconosce più l'immagine simbolica della
montagna come trait-d'union fra la terra e il cielo. Non mancano per altro i
precedenti di un simile atteggiamento. Le cronache di viaggio raccontano infatti
che dopo innumerevoli secoli nel corso dei quali l'attraversamento dei colli
alpini era stato vissuto come esperienza angosciosa e come un castigo di Dio, i
primi viaggiatori che riuscirono a divertirsi in montagna sono stati quelli che
nel Settecento si facevano portare dalle guide (dette «marroni») su
sedie montate su slitte (dette «ramazze») lungo la discesa del
Moncenisio. Alcuni trovarono la discesa tanto esilarante da ripeterla più
volte nella stessa giornata. In ogni caso, in discesa come in salita, allora
come oggi, il piacere del viaggiatore o del turista è assicurato dal
fermo piede dei montanari, che mettono il loro sapere e le loro tecniche di
sopravvivenza al servizio dell'ignaro uomo di città.